Il critico d’arte Jean Louis Schefer è scomparso il 7 giugno scorso a Parigi, ne ha dato notizia il figlio Bertrand. Era nato nel 1938 da una famiglia di nobili e diplomatici tedeschi (Schefer von Carlwald) stabilitasi in Francia nel 1810. Jean Louis Schefer compie studi filosofici, e si diploma all’Ecole des Hautes Etudes con una tesi di estetica e filologia « Le scritture figurative, un problema di grammatica egizia » sotto la direzione di Roland Barthes. Scrive il suo primo libro Scénographie d’un tableau tra il 1967 e il 1968, durante un soggiorno a Venezia dove si trova per lavorare ad un dizionario Francese-Italiano. È solo il primo di una produzione molto feconda che contribuisce a ridefinire la maniera di scrivere e di pensare l’estetica.

I SUOI SCRITTI – soprattutto i primi – risentono dello strutturalismo, ma il suo lavoro è per il resto assolutamente singolare e difficile da definire tanto nel suo oggetto che nel suo metodo. L’oggetto è, se si vuole, l’arte in senso lato, il suo mistero, la sua scoperta. Il cuore da cui parte la riflessione è quasi sempre l’arte figurativa, in particolare rinascimentale. Ma l’arte per Schefer è un terreno aperto i cui confini devono essere costantemente sparigliati dalla scrittura critica che crea delle connessioni imprevedibili e intempestive tra pittura, letteratura e cinema. «So quello che faccio, ma non so come le connessioni si producono. Provo piacere nell’osservare i pezzi del puzzle che si accordano in maniera coerente, e forse persino utile, e nel tracciare delle diagonali nella storia delle immagini, dalla preistoria ai giorni nostri».

STUDIANDO la genealogia delle immagini, Schefer incontra il cinema. Nel 1980 pubblica L’homme ordinaire du cinéma – uno dei libri chiave della collezione «Cahiers du cinéma / Gallimard». Non si tratta in senso assoluto di un libro sul cinema, quanto piuttosto di un modo d’inscrivere il cinema – quello appunto d’un cinefilo qualunque – all’interno della più ampia storia delle immagini, storia che per Schefer è al tempo stesso una sorta di autobiografia. È noto che la critica del cinema (di stanza ai «Cahiers») fa tutt’uno con la «politica degli autori». Per Schefer si potrebbe parlare di una «politica dello spettatore», tanto lo spettatore è per lui il vettore dell’arte – si potrebbe dire il supporto effettivo del fenomeno estetico. È nella memoria che le immagini sono impresse, e dove si dispiegano realmente attraverso le connessioni che lo spettatore è in grado di concepire.

Disposti su un tavolo, le copertine blu scuro dei saggi di Schefer formano una sorta di oceano. L’idea dell’editore POL non manca di giustezza, se si considera che la scrittura di Schefer assomiglia a quella di un naufrago. Nulla a che vedere con un manuale di sopravvivenza. Ma piuttosto il racconto, in qualche maniera romanzesco, di un’odissea estetica in cui si incontrano mostri come Jerome Bosch, Dreyer, Paolo Uccello, Giacometti, Henri Michaux, Jean-Marie Straub e Soren Kierkegaard.