Non c’è manuale di storia della letteratura americana che manchi di ricordare come fu soprattutto grazie al «Melville revival» degli anni Venti del Novecento che uno scrittore altrimenti destinato all’oblio venne riscoperto e radicalmente rivalutato. Protagonisti di questa operazione di salvataggio furono da un lato accademici di rango come Carl Van Doren e il suo allievo Raymond Weaver, o Lewis Mumford, uno dei primi a insistere sulle qualità «epiche» di Moby-Dick; e d’altra parte due saggi che D. H. Lawrence dedicò a Melville in Studies in Classic American Literature, uno dei libri più influenti scritti sulla letteratura degli Stati Uniti.

Tuttavia, la svolta fu determinata dal fatto che – a differenza dei due «mini-revival» dei decenni precedenti – la celebrazione dell’arte di Melville fu sostenuta e rafforzata dalla critica degli anni Trenta, non solo in America, ma in modo particolare in Europa.

«Pour saluer Melville»
Cesare Pavese tradusse e introdusse Moby-Dick nel 1932, e mentre persino nella Germania del Terzo Reich, Carl Schmidt e altri sodali si interrogavano sulle profondità filosofiche di Melville, in Francia lo scrittore Jean Giono, in collaborazione con Lucien Jacques e Joan Smith, lavorò per tre anni – dal ’36 al ’39 – alla traduzione del grande libro.

Pochi mesi prima della sua pubblicazione – qualche centinaio di copie per Les Cahiers du Contadour – Giono, che era un pacifista, fu arrestato con l’accusa di aver firmato il manifesto, Paix Immèdiate: non era vero, la firma su quel documento era falsa. L’equivoco gli costò tre mesi di prigione, impedendogli di introdurre il capolavoro di Melville: il saggio che aveva preparato, durante la detenzione si trasformò in una sorta di rêverie, dove quanto ricordava della vita e dell’arte dello scrittore americano si mescolò ai fantasmi della prigionia.
Alla domanda che gli sarebbe stata poi rivolta sul perché non avesse mai scritto un libro in ricordo di quell’esperienza, Giono rispondeva che quel libro l’aveva scritto, ed era Pour saluer Melville, un «omaggio» in forma di romanzo all’autore americano. Ora quel libro viene proposto per la prima volta ai lettori italiani nella scorrevole versione di Leila Beauté per Guanda, con il titolo, appunto, Melville Un romanzo, (pp. 144, € 16,00).

Una introduzione critica, che chiarisse come a fronte dei sacrosanti diritti d’invenzione di Giono, il lettore ignaro stesse attento ai falsi biografici avrebbe forse giovato. Per esplicita ammissione dello scrittore francese, infatti, il suo non è un lavoro animato da rigore scientifico, bensì dalle esigenze della immaginazione: la novella trae spunto dal viaggio compiuto in Europa da Melville nel 1849, alla vigilia della stesura di Moby-Dick, e Giono vi racconta come lo scrittore americano, dopo aver discusso con il suo editore londinese i dettagli della pubblicazione di Giacchetta Bianca, avesse deciso di andare nella (fittizia) Woodcut, nei pressi di Bristol, per ingannare il tempo in attesa dell’imbarco per New York. Dunque, indossato un vestito da marinaio, «Melville» sale su una diligenza dove incontrerà Adelina White, militante impegnata nel sostegno della causa irlandese e nel contrabbando di grano a favore di una popolazione allo stremo per la Grande Carestia. Tra i due, accomunati da una sensibilità romantica e idealista, nasce un rapporto di profonda stima e affetto, che si limita a sfociare in una serie di intensi dialoghi dal sapore allegorico e a tratti decisamente surreale. Nella finzione di Giono, lo scrittore, tornato in America e stimolato dalla corrispondenza con Adelina, compone il suo capolavoro senza però avere, sino alla morte, certezza che lei lo avesse letto.

Non un saggio, un amore
Quasi tutto, nella storia di Giono, è frutto di invenzione, comprese le entusiastiche reazioni con cui i recensori inglesi e americani avrebbero accolto la pubblicazione di Moby-Dick. Ma il libro, che Giono definisce un «atto d’amore», oltre ad aver avuto un ruolo significativo nell’alimentare l’interesse per Melville in Francia e nel resto d’Europa, contiene comunque osservazioni interessanti, specie nelle pagine introduttive. Sottolineando l’attualità dello scrittore americano, Giono scrive: «L’uomo desidera sempre un oggetto mostruoso. E la sua vita assume valore soltanto se la consacra interamente a tale inseguimento».

In ogni uomo albergherebbe un’ansia – sostiene Giono – non dissimile da quella di Ahab, la cui gamba d’avorio è simbolo delle «tremende mutilazioni interiori che infiammeranno in eterno gli uomini contro gli dei». E sia pure volando molto di fantasia, Giono riesce a catturare, nella metafora biblica della lotta con l’angelo, il travaglio interiore e lo scontro tra aspirazioni personali e aspettative del mercato letterario, che effettivamente agitarono Melville durante la gestazione del romanzo. Sarà proprio l’immagine di un angelo a presiedere all’ultima passeggiata di «Melville» e Adelina attraverso la brughiera: un angelo ora identificato non a caso come «custode di una prigione».