William Adolphe Bouguereau, “Dante e Virgilio”, part., 1850, Parigi, Musée d’Orsay

 

Di molte mostre non si ricorda che incidentalmente il curatore. Leggiamo il suo nome nei comunicati stampa, sul fondo delle locandine in caratteri minori o sul cartellone all’ingresso accanto alla biglietteria, senza attenderci da lui di più di quel che ci si aspetta da una buona compagnia teatrale al momento di mettere in scena un classico: un’eccellente resa del soggetto. E se nel teatro d’oggi ci troviamo invece sempre più spesso a osservare rassegnati il personale edificio che il regista ha voluto costruire coi pezzi del testo originale, i quali non sembrano avere ormai maggior fissità dei famosi sei personaggi della pièce pirandelliana, a una mostra non sono altrettanto comuni i casi in cui il nostro interesse sia interamente assorbito dalla firma; in Italia almeno.
Ma siccome le abitudini non esistono che per essere contraddette, ecco Inferno (visibile fino al 9 gennaio), ideata da Jean Clair per le Scuderie del Quirinale sul tema delle figurazioni infernali, che è un’originale creazione intellettuale, non meno del Faust di Nekrošius o del Giardino dei ciliegi di Stein.
Laureatosi alla Sorbona, Clair si è perfezionato a Harvard, negli Stati Uniti. Nelle sue interviste non ha mai celato l’antipatia per molti indirizzi della critica artistica contemporanea. Né lo si può rimproverare d’aver mostrato una maggiore timidezza allorché si è trattato di mettere le proprie opinioni per iscritto. In un suo saggio del 1989, Meduse. Contribution à une anthropologie des arts du visuel, l’autore dichiarava che fra i suoi propositi v’era quello di «sottrarre la storia dell’arte al ghetto degli storici dell’arte per riavvicinarla all’arte considerata come riflesso della storia dello spirito». E di un’arte come riflesso della Geistesgeschichte torna a parlare in apertura del catalogo (Electa) a proposito di pittori come George Grosz che, nel XX secolo, nonostante l’egemonia dell’astrazione e delle avanguardie, hanno continuato a ricorrere «non solo alla figurazione ma anche all’allegoria o al simbolo».
La dissoluzione dell’individuo umano, la perdita dei suoi valori ideologici e spirituali e quel suo conseguente ridursi, nell’epoca del ludo e della macchina, ai suoi fattori primi, per così dire, organici e materiali, cui molta arte contemporanea avrebbe accondisceso, non sono d’altra parte, per Clair, lontani dall’idea d’Inferno. Sembrerebbero esserne anzi l’espressione ultima, totale: «la società edonista – si legge nelle stesse pagine in riferimento a prodotti d’avanguardia quali la Merda d’artista – pragmatica, o tradizionalista, o positivista, o progressista di oggi non può che entusiasmarsi, in un’epoca di grande disgusto, nel vedere che una simile arte dello stercorario sia diventata “arte ufficiale”».
L’Inferno ha molti volti, come rivela la ricchissima messe d’opere raccolte (con gusto sempre ineccepibile e prescindendo dalla fama degli artisti presso il largo pubblico), eppure Clair sembra insistere particolarmente sull’immagine dell’Inferno come grande bocca sannuta, intenta a trinciare e maciullare anime gemebonde, il cui corrispettivo si trova già in testi medievali pre-danteschi, come la Visione di Tugdalo, d’un anonimo chierico del XII secolo: «il diavolo – asserisce Clair – divide l’unità umana, distrugge, decompone, nega tutto ciò che l’uomo compone e costruisce sotto lo sguardo e per la gloria di Dio: la lingua, le parole, la cultura, la bellezza delle forme e la perfezione delle arti. Si accanisce a distruggere quella cultura terreste dotata di linguaggio, che vive in un mondo di simboli, che è capace di riunire bellezza e ragione, di distinguere il nutrimento dall’immondizia».
Sicché il percorso espositivo non può che chiudersi, per contrasto, con l’armonia della volta stellata, col purissimo e spaziato incavo del cielo, moto d’astri distinto e regolato, ch’è l’opposto delle viscere grommose e purulente, degli antri lordi e atri in cui un’umanità scempia si rivolta uggiolando come in quella gigantesca padella alla quale il Pulci paragonava i campi di battaglia. Si vedono in quest’ultima sala, tra le altre cose, due mirabili lavori di Kiefer (Stelle cadenti; La completezza delle stelle) e un superbo Richter (Costellazione).
Queste, almeno concettualmente, le ragioni della mostra. Ma si farebbe torto al curatore se si volesse vedere in questa galleria d’immagini niente più che il sontuoso apparato illustrativo d’una tesi preconcetta: è proprio dalle scintille che scoccano dagli accostamenti fra i quadri, infatti, che il discorso di Clair, senza perdere in perspicuità e chiarezza, acquista persuasività e vigore. Come un sofisticato retore, egli ha infatti disposto le opere secondo simmetrie sottili e contrasti vibranti, in un’architettura d’indubbia magnificenza visiva. Sicché, messi l’uno accanto all’altro, le opere paiono cantare per la sorpresa di ritrovarsi insieme. Si guardino quei piccoli demonietti, accaniti come zelanti operai della carneficina, di Pieter Huys, con le loro gibbe e i loro grifi, e quelli che ciondolano, periclitando, su scale e corde immateriali, diafani e filiformi come insetti, ne Gli inferi di Monsù Desiderio: non guadagnano forse, questi lavori di piccola dimensione, brulicanti e minuti, dal vedersi posto difronte il grande Satana schiera le sue legioni di Thomas Lawrence, in cui un protervo Lucifero neoclassico avanza con quella sua bellezza di dio caduto che i Romantici avevano ricavato dal poema di Milton?
Ma non si tratta di notazioni accidentali. Nella prima sala, la dannazione s’esprime in un intrico di membra tormentate. Vi figurano opere molto diverse, unite dalla comune derivazione michelangiolesca: La caduta degli angeli ribelli, stupefacente lavoro scultoreo di Francesco Bertos, la celebre Porta dell’inferno, ch’è come un prontuario dei motivi cari a Rodin, e La caduta degli angeli ribelli di Andrea Commodi, in cui il michelangiolismo delle pose si fonde al caravaggismo delle espressioni: insieme creano una rappresentazione compatta, cupa e magnificente dell’Inferno nella quale particolari motivi figurativi trasmigrano attraverso le epoche.
Anche nelle altre sale, d’altronde, non restiamo meno ammirati dalla suggestione degli accostamenti. Le Carceri e le Prigioni di Piranesi si perpetuano nei grovigli industriali di François Bonhommé (Calata a Indret), i cuprei bagliori infernali dei moralisti del XVII secolo rivivono nelle rosseggianti fucine descritte da Anders Montan (Interno di acciaieria), dove un’umanità anonima sembra asservita all’eterno moto delle macchine. E di dove provengono gli esseri teriomorfi che popolano la serie dei Disastri della guerra del Goya, di dove quegli scarniti assassini che impiegano vanghe e bastoni come arnesi da macello, se non da un Medioevo fantastico e ctonio?
L’Inferno, suggerisce Clair, è una condizione umana sopravvissuta al crollo delle antiche fedi. Scomparso dall’orizzonte dei credenti, permane nel mondo moderno, che ha alienato e degradato l’individuo, riducendolo a quel che una volta Auden definì «poor muddled maddened mundane animal», povero, confuso, esasperato animale mondano.