Siamo nel 1912. La casa discografica Columbia – insieme a Rca, Decca e Brunswick tra le label Usa più importanti nel XX secolo – abbandona definitivamente la registrazione su cilindri. Il disco a doppia faccia (78 giri, 25 cm di diametro) diventa lo standard dell’incisione e produzione fonografica. Manterrà il suo dominio sino agli anni Cinquanta.
Centodieci anni fa si determinava questo passaggio fondamentale. Ricorda Philippe Carles (a lungo redattore capo di Jazz Magazine, produttore per France Musique) che «senza l’invenzione, alla fine del XIX secolo, di macchine che permettono di registrare o riprodurre il suono, la perpetuazione e la diffusione universale del jazz non sarebbero state possibili (…): si tratti di cilindri, di dischi o di nastri magnetici (audio e video), i supporti fonografici sono i soli documenti che permettono di riprodurre le opere del jazz in tutta la loro verità di esecuzione» (P. Carles-A. Clergeat-J.L. Comolli, Dizionario del Jazz, Mondadori 2008).
Il jazz ha avuto il destino – e la fortuna – di nascere in coincidenza con la riproduzione sonora e di attraversare le innumerevoli fasi delle trasformazioni tecnologiche modificando, nel tempo, il suo linguaggio. La musica che si definisce classica è nata, invece, secoli prima del grammofono-giradischi; il rock’n’roll ha, dal canto suo, visto la luce quando il processo era già ben avviato. Ma c’è di più. Poiché il jazz si pone all’incrocio tra scrittura e oralità, composizione e improvvisazione solo i «supporti fonografici» sono in grado di restituire la musica di origine afroamericana nell’interezza del suo linguaggio, mentre lo spartito ne è una parziale, pallida stenografia.

TAPPE FONDAMENTALI
Storia lunga e complessa, dalle molteplici implicazioni. Qui se ne ricostruiscono alcuni passaggi e anche quello da cui si è partiti – dal cilindro al disco – aveva oltre cinquant’anni di sperimentazione alle spalle, visto che il fonoautografo del francese Leon Scott risale al 1856. Altra tappa fondamentale è il fonografo brevettato da Thomas Alva Edison nel 1877, apparecchio capace sia di registrare che di riprodurre. Sarà Emil Berliner nel 1887 a perfezionare il sistema con il suo grammofono in cui si sperimentava, invece del cilindro di stagnola, un disco di materiale plastico. L’incisione di un solco laterale, invece che verticale, la realizzazione di una matrice attraverso un disco di ceralacca, la riproduzione in più copie portarono nel 1912 a quello che viene definito disco a 78 giri, capace di contenere tre minuti circa di musica per facciata (25 cm di diametro, 78 giri al minuto). È questo il formato che documenta «the early jazz» (anni Venti), quello degli Hot Five e Seven di Louis Armstrong, dei Red Hot Peppers di Jelly Roll Morton, di Bessie Smith e dell’orchestra di Duke Ellington. «Nel jazz e nel varietà – sostiene Carles – i musicisti si limitavano, in genere, a delle interpretazioni corrispondenti alla durata di una facciata» e ciò andrà avanti sino a tutti gli anni Quaranta producendo comunque un’enorme massa di musica e innumerevoli capolavori, da West End Blues a Night in Tunisia».
Trascorrono trent’anni dal 1912; si è nel 1942 e gli Usa sono in guerra contro le dittature dell’asse Roma-Berlino-Tokyo. Hanno spedito nelle zone di conflitto (Europa e Oceano Pacifico) un esercito di giovani soldati, sottufficiali e ufficiali. Il capitano Howard Bronson si occupa del settore musicale nel programma ricreativo per le truppe al fronte; ha l’idea di una produzione discografica per quest’esercito di giovani liberatori, materiale sonoro per tenere alto il morale e far sentire i militari meno lontani da casa. Concretizza l’intuizione un altro giovane capitano, George Robert Vincent, che ha carta bianca dallo stato maggiore, ottiene notevoli finanziamenti e avvia la complessa operazione proprio in quello stesso anno.
Si tratta di produrre e inviare sui fronti bellici migliaia di pacchi speciali con dischi, puntine ed apparecchi per ascoltarli: materiale di «conforto» e indiretta propaganda per l’«american way of life».
Negli Usa è in atto un blocco delle registrazioni di musica strumentale, sostenuto dal sindacato dei musicisti per una giusta questione di diritti. Il capitano Vincent trova un accordo con la Afm e l’«operazione V-Disc» è delineata: incisioni senza scopo di lucro, artisti che suonano volontariamente senza compenso, studi di registrazione e tecnici disponibili gratis, a fine conflitto distruzione delle matrici (clausola, in realtà, non rispettata).
Con l’attiva collaborazione delle case discografiche si produce un catalogo che sarebbe arrivato (maggio 1949) a 2654 matrici, 1195 dischi stampati e distribuiti in otto milioni di copie. Si tratta di brani jazz (32%), canzoni, musica popular e classica. Le spedizioni iniziali non vanno bene: i primi V-Disc (etichetta bianca, rossa e blu, la «V» in bella evidenza) sono dei 78 giri di materiale frangibile; molti pacchi giungono al fronte con i dischi in frantumi. I laboratori del Dipartimento della guerra statunitense studiano in tempi record un materiale infrangibile (il vinile) e una tecnica di registrazione in microgroove (microsolchi) che consente maggiore fedeltà e durate più ampie, fino ai 20 minuti su due facciate.
Con queste caratteristiche ripartono i V-Disc con brani di Sidney Bechet, L. Armstrong, Fats Waller, Art Tatum, D. Ellington, Glenn Miller, Benny Goodman, Jimmy Dorsey, Count Basie, Jo Stafford, Frank Sinatra, Nat King Cole, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Peggy Lee, come anche di Lionel Hampton, Gene Krupa, Roy Eldridge, Lennie Tristano e Clark Terry.

ARRIVA IL LONG PLAYING
Per i «Dischi della Vittoria» si attinge ai cataloghi esistenti ma si producono anche session originali (spesso con jazzisti bianchi e neri) e si pubblicano estratti da concerti. I giovani ufficiali interni all’operazione saranno, a conflitto concluso, i manager della nuova discografia statunitense. Vinile e microsolchi sono, infatti, i presupposti per l’avvento, finita la Seconda guerra mondiale, della rivoluzione del long playing a 33 giri e 1/3. E si tralascia, in questa sede, l’enorme impatto che le «incisioni della Vittoria» hanno avuto sulla popolazione europea e giapponese, costituendo la colonna sonora della liberazione e gettando le basi di un rinnovato interesse mondiale per il jazz.
Sarebbero necessari una decina di Ultrasuoni per raccontare la rivoluzione del long playing con i suoi concept album e l’impaginazione dei brani, la dilatazione enorme degli spazi creativi, le straordinarie sessioni di registrazione analogiche, la nascita di una grafica apposita e caratterizzante come delle «liner notes», note di copertina, scritte da musicisti e/o critici. Del resto Claudio Sessa (nel suo libro Improvviso singolare. Un secolo di jazz, Il Saggiatore 2015) parla di «esplosione del jazz: 1955-1973» in una fase irripetibile di espansione economica e discografica, dove si determinano «uso industriale e uso creativo del microsolco».
Uno «strappo temporale» quarantennale ci porta, quindi, al primo ottobre del 1982, in Giappone. Nel 1979, sempre in territorio nipponico, viene lanciato il riproduttore/registratore portatile, a cassetta, Walkman che sovverte tempi, luoghi e modalità di percezione/fruizione della musica. Tre anni dopo fa la comparsa il cd, sviluppato da Sony e Philips, che abbandona la vecchia tecnologia e punta tutto sul digitale. Il lettore cd (primo modello il Cdp-101) sfrutta un raggio laser e il nuovo supporto ha una capienza enorme (oltre 70 minuti) promettendo di essere privo di rumori e non usurabile. Billy Joel, Pink Floyd, Barbra Streisand, Simon & Garfunkel, Bruce Springsteen, Abba sono tra i primi artisti a pubblicare cd. Già nel 1985 i Dire Straits vendono un milione di copie in compact disc del loro Brothers in Arms.
Il jazz ci mette tempo a convertirsi e a produrre direttamente in digitale. Nel primo periodo – come accaduto, per certi versi, nel passaggio 78-33 giri – le etichette discografiche fanno a gara a ristampare nel nuovo formato i «vecchi» vinili arricchendoli con inediti (bonus track) e, soprattutto, con le «alternate takes», le registrazioni scartate che contengono una miniera di informazioni sul processo creativo di gruppi e singoli. Si apre così una fase completamente nuova che sembra inarrestabile.
Dopo quarant’anni l’attuale sonosfera vede il ritorno del vinile e il trionfo della musica «liquida», tra piattaforme e YouTube.