1912 e 1922, centodieci anni e un secolo fa: un periodo davvero lontano dalla contemporaneità. Eppure questi due anni segnano altrettanti eventi di per sé altamente simbolici, eventi che sottolineano come già da allora la musica afroamericana – e in particolare il jazz – stesse conquistando gli Usa e, da lì, il mondo.
Il 2 maggio 1912 il direttore d’orchestra e compositore (nonché pianista e violinista) afroamericano James Reese Europe presenta alla Carnegie Hall di New York un monumentale Concert of Negro Music. È un momento storico per vari motivi: per la prima volta un organico composto da musicisti neri – la sua Clef Club Orchestra – viene ospitato in uno dei «templi» della musica classica nella Big Apple. In ambito jazz ci sarebbero in seguito riusciti il «padre» del blues W.C. Handy (1928), Benny Goodman (1938 e ’39) e Duke Ellington (1943), gli ultimi due rispettivamente con From Spiritual to Swing e con la suite Black, Brown and Beige (all’interno di un recital celebrativo dei vent’anni di carriera del bandleader).
C’è di più. Ciò che si ascolta nella sala è una testimonianza di come dal ragtime stesse emergendo quello che il musicologo Gunther Schuller ha chiamato «Early Jazz». Certo la Clef Club Orchestra, forte di 125 membri, combinava varie famiglie di strumenti (soprattutto a fiato) con un’agguerrita presenza di strumenti a plettro (mandolini, chitarre e banjo). Il suo linguaggio – definito «sweet dances» – era un’originale commistione di stili, dalle marce ragtime al blues passando per il «minstrelsy»; in ogni caso nel repertorio dell’estesa formazione di «Jim» Europe la «musica sincopata» assume una dimensione orchestrale. Il pubblico integrato del concerto alla Carnegie Hall – secondo quanto riportato dal giornale The Sun – tributa applausi convinti all’esibizione della Clef Club Orchestra e il bandleader avrebbe suonato nella prestigiosa sala in altre occasioni, fra il 1912 e il 1915.
Europe è protagonista, peraltro, di vari momenti di massima popolarità: accompagna con la Europe’s Society Orchestra nel 1910 la famosa coppia di ballerini angloamericani Vernon e Irene Castle; nel 1917, quando gli Usa entrano nella Prima guerra mondiale, dirige la banda del 369° Reggimento di fanteria (gli Hellfighters) che in Francia suonano «nelle retrovie per tenere alto il morale delle truppe, dei feriti, dei soldati in licenza. «Nel 1918 si organizzano concerti in venticinque città» (Ivan Députier) e i loro recital lasciano a bocca aperta pubblico e musicisti.

CHE TROMBONE
Non da meno di «Jim» Europe, in quanto a personaggio e notorietà, è Edward «Kid» Ory che nel 1922 aveva trentasei anni. Ory – che suonerà fino al 1971 e morirà nel ’73 – è il più rappresentativo trombonista dello stile New Orleans; è attivo nel capolouogo della Louisiana dal 1913 e nell’orchestra che dirige, con il cornettista Mutt Carey, suonano i grandi dell’early jazz: King Oliver, Johnny Dodds e Louis Armstrong. Nel 1919, per motivi di salute, si trasferisce in California e qui dà vita a una band. Nell’aprile del 1922 il trombonista incide due facciate di 78 giri di grande importanza: «È la prima documentazione di un gruppo afroamericano proveniente da New Orleans, cinque anni dopo le incisioni di La Rocca e dei suoi» (C. Sessa, Improvviso singolare, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 82). Nick La Rocca, cornettista di origini italiane, guida l’Original Dixieland Jazz Band cui si attribuisce la prima registrazione della nuova musica (1917, Livery Stable Blues). Gli Spikes’ Seven Pods of Pepper Orchestra, nome del gruppo di Ory, registrano a Los Angeles – per la Sunshine Records – Ory’s Creole Trombone e Society Blues; è un sestetto con Carey alla cornetta, Dink Johnson al clarinetto e Fred Washington al piano più sezione ritmica. Il pezzo A, scritto dal trombonista, è proprio una «vetrina» per lo strumento che dialoga con il collettivo attraverso introduzione, quattro temi e coda. Il brano è un ideale ponte tra la musica collettiva di New Orleans e gli sviluppi più solistici del jazz di cui sarà protagonista Louis Armstrong.
Ma il 1922 è anche l’anno in cui la Paramount Records dà il via alla sua serie «Race Records», destinata al pubblico afroamericano. L’etichetta, fondata nel 1917 e attiva fino al 1932, non aveva nessuna relazione con la cinematografica Paramount Pictures ma quest’ultima nel 1969 diede vita a una nuova Paramount Records, operativa fino al 1974.
Tra le prime artiste sotto contratto per la serie «race records» ci sono la blueswoman Alberta Hunter e la cantante Lucille Hegamin, dal vasto repertorio. La Paramount, comunque, non era sola sul fronte dei «dischi razziali».

RACE RECORDS
Le parole, si sa, cambiano con il tempo e le circostanze. Negli anni Quaranta del jazz – quelli delle «tarde» orchestre swing, delle big band progressive e del rampante bebop – un termine come «race records» suona già fuori moda, un vero «fossile sonoro» del passato. Nel 1942, infatti, tutte le serie «race records» vengono chiuse.
Eppure i «race records» a partire dagli anni Venti – tra il 1921 ed il 1922 – sono state veicolo di notevole successo discografico: nei loro solchi si potevano udire e più famose blueswomen, da Ma Rainey a Bessie Smith, i bluesmen più celebri, da Blind Lemon Jefferson a Charley Patton, il grande pianista stride Willie «The Lion» Smith, l’inarrivabile Louis Armstrong, i bandleader Fletcher Henderson e Duke Ellington, la magia spirituale del gospel.
La storia dei «race records» inizia grazie a una cantante nera, Mamie Smith, che nell’agosto 1920 registra per la OKeh un 78 giri con, nel lato A, Crazy Blues, scritta dal pianista Perry Bradford. Il disco ha un risultato di vendite impensabile (i dati registrano un milione di copie in sei mesi), rivelando la fetta di mercato, piuttosto succulenta, degli afroamericani. Le case discografiche in mano a imprenditori bianchi – anticipate dalla OKeh con la serie 8000 – creano collane «race» dedicate al pubblico nero – con 78 giri acquistabili via posta – a cui è rivolta una mirata promozione: Brunswick (7000), Columbia (14000 D), Paramount (12000), Perfect (100), Victor (V 38500), Vocalion (1000). Anche piccole etichette gestite da afroamericani fanno altrettanto: Ajax, Black Patti, Merritt e le più famose Black Swan e Gennett.

PRISMA MUSICALE
Il periodo migliore per le collane dedicate, che si litigano il blasone di «The world’s greatest race records», è quello tra il 1921 (1922) e il 1930. Stilisticamente il loro prisma musicale offre blues (urbano e country), la sacralità del gospel e i fasti dell’early jazz.
Nel secondo decennio del secolo scorso, si parla, tutto sommato, di cinque milioni di copie vendute per ciascun anno. Le varie label hanno i propri artisti di punta su cui si costruiscono apposite campagne pubblicitarie per essere ben visibili nel «black market». Eccone un esemplificativo elenco, organizzato per etichette: le cantanti Alberta Hunter ed Ethel Waters, il pianista e bandleader Fletcher Henderson (Black Swan); le vocalist, non parenti, Bessie Smith e Clara Smith (Columbia); il cornettista Joe «King» Oliver, un Armstrong già ai vertici, il chitarrista blues – spesso in ambito jazz – Lonnie Johnson (OKeh, direttore artistico il pianista nero Clarence Williams); i già citati bluesman Blind Lemin Jefferson e Charley Patton (Paramount). Alle etichette già nominate, negli anni trenta si aggiunge la Decca, che inaugura una Sepia Series con musicisti «colored». Non si esclude, tuttavia, un pubblico bianco che attraverso i «race records» si abbevera alle sorgenti del jazz. È stata la scure della crisi economica del 1929, però, a «decapitare» l’economia americana e, quindi, l’industria discografica. Sparizioni, crisi, trasformazioni delle etichette caratterizzano la fine piuttosto catastrofica dei ruggenti anni Venti.