Nelle storie del jazz che sono disponibili, i contributi delle diverse culture che hanno dato origine a questa musica sono ancora oggetto di studio. Tra queste spicca per assenza quella dei Nativi. Oggetto di un genocidio di straordinaria ferocia e persistenza i popoli aborigeni del Nord America hanno sofferto in modo particolarmente forte la delirante classificazione su base razziale degli Stati Uniti spingendo le persone dalla doppia discendenza africana e nativa a dover optare per una sola di queste identità annullando quasi sempre quest’ultima. Eppure la storia dei rapporti tra i due gruppi è stata rilevante. Gli schiavi fuggiaschi spesso trovavano ospitalità nei territori indiani del Sud oppure, attraverso la rete segreta della Ferrovia sotterranea, in quelli del Canada. La convivenza ha spesso dato luogo a mescolanze tanto da generare nuove comunità miste come i Black Seminole in Florida. Dopo la conclusione della Guerra Civile che mise fine alla schiavitù, afroamericani e nativi andarono ad ingrossare i centri urbani in rapido sviluppo. Tra questi anche la città meticcia per eccellenza: New Orleans. Tracce di questi contatti rimangono ora nel Mardi Gras Indian, la parata durante la quale gli afroamericani sfilano in sfarzosi e coloratissimi costumi che si rifanno, esagerandoli fino al parossismo, a quelli dei nativi. Un misto di affettuoso tributo, creativa appropriazione culturale e sincretismo come dimostra il sassofonista Donald Harrison Jr. ritratto nel suo costume da Black Indian sulla copertina dell’album Indian Blues (Candid).

CERIMONIE
Possiamo trovare parecchi punti di compatibilità tra le pratiche musicali dei nativi e quelle che sono alla base del jazz a partire dalla oralità. Il canto si svolge spesso con modalità responsoriale, uso del falsetto e dell’improvvisazione, sia testuale che attraverso fonemi (quello che avviene nel jazz con la tecnica dello scat). Il canto con fonemi assolve a una fondamentale funzione di inclusività intertribale. Gli strumenti musicali sono tamburi, sonagli e, più raramente, flauti. La musica è intimamente legata alla danza in cerchio. Tutto questo ha una significativa somiglianza al ring shout, la cerimonia clandestina degli schiavi neri basata sulla triade danza (in cerchio), percussioni e canto.
Non siamo in grado oggi di stabilire quanto di questo retaggio sia stato trasmesso per via parentale ai tanti musicisti del jazz delle origini e quanto questo abbia influito sulla sua nascita. Sappiamo per certo che molti di essi avevano sangue nativo: Edward «Kid» Ory, George Lewis, Johnny e Baby Doods, George Wilson, Pee Wee Russell, Frankie Duson, Pops Foster. Come lo avevano Duke Ellington, Oscar Pettiford, Miles Davis, Charlie Parker, Don Cherry. La cantante Mildred Bailey, una delle voci più belle del periodo tra le due guerre mondiali, era cresciuta fino all’età di tredici anni in una riserva dell’Idaho.
Sappiamo però che dalla fine dell’Ottocento vennero create nelle scuole delle riserve una serie di Marching Band con lo scopo di disciplinare i giovani nativi. Come spesso accade però le persone una volta acquisita la tecnica imparano presto ad usarla creativamente. Ecco che spuntano nei territori indiani piccoli e gruppi e big band jazz come Harmony Chiefs, Kamiah Indian Band, The Nezpercians. Di straordinaria importanza però è il trio Big Chief Henry’s String Band della famiglia Hall. Nelle sei facciate di 78 giri incisi nel 1929 per la RCA Victor troviamo valzer, bluegrass e ragtime ma soprattutto la sorprendente The Indian Tom Tom (in American Epic: The Soundtrack, Sony) primo esempio documentato di ibridazione tra musica tradizionale nativa e musica afroamericana.

PICCOLI QUADRI
Dagli Anni Trenta ai Cinquanta la cultura nativa nel jazz appare anche attraverso alcune composizioni che tentano di descrivere con un bozzettismo impressionista ed esotizzante piccoli quadri di ambientazione indiana. Il più famoso è Cherokee composto da Ray Noble nel 1938 ma merita un ascolto soprattutto Indian Love Call, un brano di Broadway del 1924, nell’esecuzione del 1938 del clarinettista Artie Shaw che nei primi minuti infila tre stereotipi che allora connotavano quel tipo di atmosfera: il rullo dei tamburi, la melodia esposta dal clarinetto e le urla all’unisono dell’orchestra.
Ci vorranno gli anni Sessanta e i movimenti per i diritti civili a cui si saldano ben presto le contestazioni pacifiste, antimperialiste e anticonformiste perché appaia un jazz nativo apertamente militante. Il disco che fa da spartiacque è Pepper’s Pow Wow del sassofonista Jim Pepper (1941-1992) pubblicato nel 1971 dall’etichetta Embryo del flautista Herbie Mann. Il musicista era nato a Salem, i genitori erano Creek e Kaw. Alla fine degli anni Sessanta, stimolato dalla sua militanza a favore della causa dei nativi impegnati in aspre e violente lotte contro le istituzioni, compone una rielaborazione del canto rituale Witchi Tai To che sarà il pezzo di apertura del disco e diventerà il suo brano più famoso di sempre. Nel gruppo ci sono musicisti come il chitarrista Larry Coryell e il batterista Billy Cobham come lui interessati a percorrere nuove strade dove il jazz si mescoli con il rock, la psichedelia e le musiche etniche. La chiameranno fusion. Pepper inserisce canti a chiamata e risposta in Rock Stomp Indian Style; chitarre country, e un canto che ricorda Johnny Cash, in Seneca; furiosi collettivi free in Now War Dance. Il disco è una orgogliosa rivendicazione delle proprie radici, un urlo di consapevolezza e una affermazione della propria storia; una storia negata e repressa. Secoli di violenza che hanno spinto un popolo alla assimilazione forzata adesso vengono abbattuti dalla musica.
Il pianista Don Pullen (1941-1995) è stato uno di quei musicisti sottovalutati nonostante si possa ben dire che la sua figura sia tutt’altro che irrilevante. Inizi free jazz e r’n’b, che resteranno sempre impressi nella sua poetica, e poi la notorietà con il quintetto di Charles Mingus. Con la sua formazione African Brazilian Connection vivrà quella che sarà la sua ultima esperienza umana e musicale: l’incontro con la musica dei nativi dei quali porta nelle vene il sangue della nonna paterna. Durante due residenze tra il 1993 e il 1995 nelle riserve del Montana tra i Kootenai ascolta i Chief Cliff Singers (percussionisti e cantanti) e si getta in un lavoro che mescoli il jazz con la loro musica. Con loro lavora, parla, impara e insegna. Mentre sta componendo gli viene diagnosticato un tumore che lo stroncherà un mese dopo la registrazione di Sacred Common Ground (Blue Note) impedendogli di suonare alla presentazione del disco durante la quale sarà sostituito da D.D. Jackson. Gli altri musicisti sono il sassofonista Carlos Ward, il batterista J.T. Lewis, il percussionista Mor Thiam e per l’occasione il trombonista Joseph Bowie e il contrabbassista Santi Debriano. In The Eagle Staff Is First è evidente la compatibilità tra le due musiche per la predilezione per la ripetizione che le accomuna. River Song fonde la poliritmia delle percussioni africane con quelle indigene mentre Reservation Blues conferma ancora una volta le affinità dei due universi culturali nel segno del blues.
A una generazione successiva appartiene il sassofonista Lee Mixashawn Rozie (1952) che opera dagli anni Settanta con l’Afro Algonquin Trio insieme al fratello Rick, al contrabbasso, e a diversi grandi batteristi afroamericani che si sono alternati nel corso del tempo: Rashied Alì, Pheeroan AkLaff, Royal Hartigan. Il trio fa il suo esordio discografico nel 1980 con Afro Algonquin (Mores Music). «L’intento del progetto è stato all’inizio quello di celebrare la fusione tra le musiche afroamericane e quelle degli indigeni delle Americhe. Adesso il progetto si è esteso a tutte le espressioni musicali dell’Atlantico: Americhe, Africa, Europa». In rete si possono vedere e ascoltare le sue recenti performance al Vision Festival di New York .

PRECISIONE IDEOLOGICA
Mixashawn è una importante figura di musicista, compositore, didatta e saggista forte dei suoi studio in storia e etnomusicologia. Il suo eloquio al tenore è potente e fantasioso e l’uso della voce di bella espressività; la sua carriera può vantare collaborazioni con Dave Douglas, Ronald Shannon Jackson, Don Pullen, William Parker. Quest’ultimo è con certezza il musicista afroamericano che con più lucidità, creatività e precisione ideologica ha raccontato la storia dimenticata e negata del popolo nativo americano. Contrabbassista dal suono profondo e dal timing implacabile, Parker è stato a lungo collaboratore dei due giganti del free Cecil Taylor e David S. Ware e assiduo frequentatore del movimento dei loft nella città, New York, dove è nato nel 1952. Animatore culturale e catalizzatore di energie, pensatore e poeta, appassionato promotore della multidisciplinarietà, il contrabbassista è oggi una figura imprescindibile, un protagonista degli ultimi quarant’anni del jazz. Da sempre Parker è convinto che la musica abbia il compito di cambiare il mondo e in questa ottica l’attenzione per i temi della liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento è centrale. Per questo molta della sua musica si riferisce anche a figure ed episodi della storia passata. Nel disco The Peach Orchard (AUM Fidelity) inciso nel 1998 con il sassofonista Rob Brown, il pianista Cooper-Moore e la batterista Susie Ibarra, il brano omonimo trae ispirazione dalla guerra nel New Mexico tra i Navajo guidati dal capo Manuelito e l’esercito degli Stati Uniti. «I Navajo amavano sopra ogni cosa i loro pescheti. Quando la guerra finì avevano perso ogni cosa, inclusi i pescheti che andarono distrutti. Leggendo di questo sono stato investito da una profonda tristezza. Posso solo immaginare la tristezza che devono avere patito. Quello fu l’inizio della fine. In questa composizione si può sentire la voce non solo di Manuelito ma anche di Nana, Geronimo, Wovoka, Sitting Bull, Kicking Bird e tutti gli altri… di tutti quelli che hanno sofferto». Il pezzo è di una bellezza e intensità sconvolgenti.
Nell’imponente cofanetto Migration of Silence into and out of the Tone World (Centering Records) sono contenuti i brani Trail of Tears I & II. Si tratta del tema e delle variazioni della stessa composizione, eseguiti dal pianoforte di Eri Yamamoto. Nel libretto Parker acclude alle note una sua poesia. Trail of Tears, il «sentiero delle lacrime», è come viene chiamata la deportazione forzata che dovettero subire i circa sessantamila appartenenti alle nazioni Cherokee, Choctaw, Muscogee, Seminole, Chicasaw nel 1830. Durante il viaggio dal Sud ai nuovi territori a loro assegnati oltre il fiume Mississippi morirono per la fame, il freddo e le malattie oltre tredicimila persone in quella che è considerata la più grande strage della storia degli Stati Uniti. A partire dal 2017 Parker ha rappresentato più volte The Trail of Tears Continuum, una opera che si compone di musica, poesia, danza e video. La formazione annovera Hamid Drake, Steve Swell, Rob Brown, Dave Sewelson, James Brandon Lewis, Cooper-Moore, danzatrici, cantanti e un quartetto d’archi. Il vasto respiro programmatico, i riferimenti al teatro musicale, alle forme del jazz d’avanguardia, della black music come a quelle della musica europea ne fanno un vero e proprio monumento alle sofferenze, al desiderio di riscatto e alla necessità del risarcimento dei nativi Americani nell’ambito di un affresco che abbraccia la storia americana dal 1492 a oggi. La registrazione del concerto del 2020 si può ascoltare sul sito del Teatro Roulette di New York.

NUOVE GENERAZIONI
Nel maggio scorso ha debuttato una formazione che rappresenta il sentire dell’ultima generazione dei jazzisti nativi. Si tratta della Julia Keefe Indigenous Big Band, una orchestra di sedici elementi provenienti da Alaska, Canada, Caraibi, Nord e Centro America. Lo scopo del progetto è quello di evidenziare il contributo dei musicisti indigeni alla storia del jazz attraverso la riscoperta dei jazzisti del passato e nuove composizioni. Si tratta dunque ora di riaffermare una presenza a lungo oscurata. La direttrice dell’orchestra è la cantante Julie Keefe (1989), musicista impegnata anche a riproporre il repertorio di Mildred Bailey, coadiuvata dal sassofonista Rico Jones e dal trombettista Delbert Anderson, leader di un vigoroso trio che ha dato alle stampe un paio di album e di recente il brano Roadrunner, efficace incrocio tra musica navajo, jazz e hip hop con la presenza del rapper Def-I.
Dell’orchestra fa parte la contrabbassista e cantante Mali Obomsawin (1996) che, dopo una militanza nel trio folk Lula Wiles, ha esordito con Sweeth Tooth (Out of Your Head Records) uno splendido disco che dimostra la maturità dell’artista a dispetto della giovane età. Accanto alla leader suonano il trombettista Taylor Ho Bynum, che ha co-prodotto il disco, la chitarrista Miriam Elhajli, la batterista Savannah Harris, le ance Allison Burik e Noah Campbell.
Mali Obomsawin appartiene alla nazione Odanak e si definisce musicista e militante per la giustizia territoriale e razziale. In lei si percepisce chiaramente l’indignazione di una nuova generazione di artisti nativi decisi a denunciare senza alcun timore il genocidio culturale del loro popolo e prendere parte attiva nella battaglia politica che sta infiammando gli Usa radicalizzando le posizioni tra estremisti di destra e progressisti. Obonsawin considera il folk e il jazz «musiche comunitarie basate su un vernacolo comune, che valorizzano l’individualità dei musicisti ma in definitiva sono poggiate su una collettività». Il disco è stato concepito come una suite in tre movimenti tra i quali spicca un arrangiamento di Odana, canzone molto popolare nella sua comunità resa celebre da Alanis Obomsawin, regista e cantante del Rinascimento culturale indigeno dagli anni Sessanta. Centrale in tutto il lavoro è il brano Wawasint8da, sua personale rielaborazione di un inno religioso del 1700 che i gesuiti hanno tradotto in lingua abenaki, che denuncia l’opera di assimilazione forzata da parte della chiesa delle popolazioni del Canada attraverso l’istituzione delle scuole residenziali. Tra il 1883 e la fine degli anni Sessanta più di 150 mila bambini furono strappati alle loro famiglie e trasferiti nelle 139 scuole gestite dalla chiesa, soprattutto cattolica. L’obiettivo era la conversione forzata al cristianesimo e l’annientamento dell’identità indigena. Sottoposti a violenze fisiche e sessuali e privazioni di ogni tipo si stima, secondo il Rapporto della commissione per la verità e la riconciliazione pubblicato nel 2015, che ne siano morti più di tremila, molti dei quali sepolti in fosse comuni nei pressi delle scuole. Il video del brano è di una potenza agghiacciante e fa capire bene quale sia lo stato d’animo di chi ha scoperto questa terribile storia. Sweet Tooth rappresenta già, per qualità musicale e contenuto politico, un capitolo fondamentale della lunga vicenda dei rapporti tra il jazz e le popolazioni indigene degli Stati Uniti.