Essere nati a distanza di un paio di giorni non garantisce certo affinità elettive, o di carattere, o di scelte. Per i musicisti, poi, la contiguità di date è ancora meno rivelatrice: spiccioli di ore e di giorni non solo non portano a pensare le note nello stesso modo, ma sembra quasi, al contrario, che la vicinanza di giorni nel venire al mondo vada a marcare distanze incolmabili. Rovesci secchi di poetiche, estetiche lontane che più lontane non potrebbero essere. Dunque il gioco si fa affascinante, a ripercorrerne tratti e date. Nel marzo del 1919, esattamente cento anni fa venivano al mondo rispettivamente il 17 e il 19 marzo Nat King Cole e Lennie Tristano. Ambedue magnifici pianisti, ma un binomio che sembra procedere per opposti estetici. L’uno, Cole, genio della comunicativa schietta e immediata, smussatore di angoli e spigoli, prima pianista di valore (assai sottovalutato), poi invece singer dal tocco suadente e immediato di enorme successo, a proprio agio in mezzo alla gente. L’altro, Tristano, genio di una ricerca ascetica e di rigore assoluto, pianista e docente per tutta la vita, sperimentatore di verità stranianti che, nel suo momento storico, davvero si ponevano ai confini della realtà, anticipando di lustri, a volte decenni molte delle più temerarie vie che avrebbe preso il jazz. L’uno, Cole, quasi un sex symbol, nella sua corporatura imponente, elegante e flessuosa, l’altro ripiegato su una magrezza appuntita, figura smarrita e fragile, nella sua cecità che gli imponeva di tenere il braccio di un accompagnatore, come si vede nei rari filmati quando si avvicina al pianoforte sui palcoscenici.

PROFONDO SUD

Nat King Cole era nato a Montgomery, Alabama, dunque nella capitale di uno degli stati più razzisti d’America. Sulla data sono state avanzate anche altre ipotesi, ma il 17 marzo sembra l’attestazione più credibile, anche perché nel censimento del 1920 funzionari dell’anagrafe registrano Nathanel Adams Coles come «neonato». Era figlio di un pastore battista, e probabilmente dall’eloquio tornito, caldo e preciso del padre ereditò la sua magnifica dizione. Sua madre era organista, e da lei arrivano i primi insegnamenti al pianoforte. Cole era cresciuto a Chicago, nel South Side di Bronzeville, effervescente capitale della nuova cultura musicale, teatrale, letteraria e artistica in genere dei neri d’America, dove si era trasferita la sua famiglia. Quando prende lezioni, impara a suonare la grande musica classica, da Bach a Rachmaninov, la sera bazzica nei club, soprattutto il leggendario Apex Club, a cercare di cogliere il segreto delle note di Earl «Fatha» Hines, il pianista che con Louis Armstrong aveva impresso una formidabile torsione modernista al jazz, inaugurando un vocabolario pianistico di inedita ricchezza. Le sue prime session sono con l’amico bianco Les Paul, il chitarrista che lascerà un segno profondo nella storia dello strumento diventato attrezzo fondamentale del jazz e del rock. I suoi primi dischi arrivano nel 1936, a diciassette anni: con un sestetto a nome di suo fratello Eddie. Nat non è ancora «King», ma già s’è semplificato il cognome in Cole.

L’anno successivo si trasferisce a Los Angeles, California, e lì nasce si consolida la fama del grande Nat «King» Cole pianista, nella città che, come Chicago, è in piena espansione artistica, grazia alla nascente industria cinematografica: il colpo geniale è strutturare un trio che ha un equilibrio timbrico inconsueto ed efficacissimo con pianoforte, chitarra (il grandissimo Oscar Moore) e il contrabbasso affidabile di Westley Prince, niente batteria. Se ne accorge anche il trascinante e attivissimo vibrafonista e band leader Lionel Hampton, tornato in California dopo le avventure con Benny Goodman, un leader peraltro che ha già esperienza di lavoro con i chitarristi, come Cole, visto che Goodman aveva in formazione il talento seminale ed esplosivo di Charlie Christian, segnalato da John Hammond. Texano come Moore, guarda caso. In questo periodo Nat Cole mette a punto il suo stile pianistico da uomo ponte del jazz: da una parte nelle dita ha la lezione classica, poi quella jazz di Hines e Teddy Wilson, dall’altra il suo stile filante, ornato, e maturo lo spinge verso la direzione che stanno imprimendo agli ottantotto tasti musicisti essenziali ma che il mondo oggi ha un po’ dimenticato come Billy Kyle e Clyde Hart. È la coppia che spinge lo swing verso la scattante velocità e complessità delle strutture bebop, pur calcate sugli scheletri armonici della canzone classica di Broadway.

Cole dunque, prima di essere il cantante da tutti amato è un pianista raffinato e innovativo: mano sinistra leggerissima, mano destra avventurosa, note singole scolpite e ottave in rapida alternanza. Suonerà anche con Lester Young. Nat Cole ha un altro asso nella manica: quando improvvisa su un brano, riesce a costruire linee melodiche interne che nascondono e d’improvviso svelano due, tre, quattro altri brani. È un maestro ironico e sornione della citazione, come sarà Charles Parker. Il Nat Cole pianista è spesso ricordato solo dagli addetti ai lavori. Troppo preponderante e decisiva la figura un po’ leggendaria del Nat (diventato «King» negli anni Cinquanta) vocalist perfetto dalla voce di velluto, catapultato nella notorietà dal successo prima da That Ain’t Right, subito dopo da All of You e Straighten Up and Fly Right. Dischi subito ai vertici della classifiche «nere», e super gettonati dai ragazzotti nei bar che s’attaccano ai «nuovi» juke box per ascoltare le novità: come Louis Jordan, come Nat Cole, appunto.

PERCORSO TRIONFALE

È l’inizio di un percorso trionfale, che consacra Nat nelle classifiche pop, senza però mai fargli dimenticare la sua componente fieramente jazzistica: tant’è che il songwriter, Johnny Mercer, che ha appena fondato la Capitol Records, fa del pianista e ormai soprattutto vocalist dell’Alabama il pilastro che tiene in piedi la sua etichetta. Nat Cole, come ha scritto lo specialista di vocalità nera Luciano Federighi, «incarnava lo stile afroamericano nella sua veste più aristocratica. Il suo canto dall’aplomb proverbiale è lo specchio fonico del gesto atletico di Jackie Robinson e della prosa poetica di Jean Toomer, la controparte musicale del tornito eloquio battista o del fiorito “tap” da sala del biliardo, dell’ammiccante concisione del bar del ghetto». Ha scritto il poeta Al Young che Nat King Cole ha incarnato il «Sound of warmth», il suono di un calore elegante che «scioglieva i cuori», conseguenza diretta dell’essere un ragazzo del profondo Sud degli States cresciuto in una metropoli nera del Nord, e poi trasferito nella raffinata West Coast. Perché Nat King Cole sapeva coniare come nessun altro «classe, musicalità, fascino commerciale». Se affrontava un classico di Broadway, lo trasformava all’istante in un suo pezzo raffinato. Non a caso la strepitosa vocalist d’avanguardia Jeanne Lee di Nat ha detto: «Qualunque cosa la voce di Nat toccasse, la faceva suonare giusta, impeccabile». Poi, con gli anni, seppe anche aggiungere un altro tocco d’arte alla sua figura fascinosa. Diventò anche attore drammatico, in China Gate di Sam Fuller del ’57, nei panni di W.C. Handy in St. Louis Blues (a Handy avrebbe poi dedicato un intero disco con gli arrangiamenti di Nelson Riddle), assieme a Stubb Kaye nella commedia western Cat Ballou. Non è ancora tutto: l’elegante Nat King Cole fu anche il primo nero ad avere un proprio programma radiofonico, e, dalla metà degli anni Cinquanta, anche uno show televisivo, esperienze sulle quali soffiò forte il fiato acido del razzismo. Nel ’56, in Alabama, fu aggredito e ferito da suprematisti bianchi. Qualche anno prima gli era successo di comprare una casa a Los Angeles in un quartiere per bianchi, e, messo in guardia dall’associazione dei proprietari sul fatto che non volevano persone indesiderabili, Nat superò se stesso in sprezzatura rispondendo: «Neanche io voglio persone indesiderabili. E se qualche indesiderabile si trasferirà qui, sarò il primo a lamentarmi». La vita gli presentò il conto molto presto: lo tradirono le sessanta sigarette al giorno che fumava, convinto di essere aiutato nella voce dal tabacco al mentolo. Se ne andò nel 1965, poco più che quarantenne.

RIFUGI

Visse qualche spicchio di tempo in più invece il coetaneo e grande Leonard Joseph detto «Lennie» Tristano, rovescio, come s’è detto, della contagiosa allegria e gioia di vivere di Nat Cole, che, come s’è visto, aveva anche ottimi motivi per portarsi sulla schiena pesanti amarezze. Era nato a Chicago, nella locale «Little Italy» in una famiglia di emigrati italiani provenienti da Aversa, segnato da subito dal fatto di essere ipovedente (diventerà poi cieco del tutto già a nove anni), e di dover frequentare le scuole in un istituto che occupava persone con handicap di tutti i tipi, e tutti assieme. La musica fu subito il suo rifugio, il suo stimolo, il suo mondo reale, se è vero che sin da giovanissimo Lennie imparò a maneggiare sax contralto e tenore, clarinetto, tromba, violoncello, chitarra, batteria, da accostare al prediletto pianoforte, e cominciò ad ascoltare pile di dischi di jazz. Fu iscritto anche al Conservatorio, e con risultati brillanti, ma non diede mai l’esame finale, oltre a quello del triennio, perché la tassa era di cinquecento dollari. Troppi, per Lennie, che racimolava quattro o cinque dollari al giorno esibendosi la sera nei locali. Gli inizi lo vedono suonare, per sopravvivere, jump blues e jazz assai commerciale al clarinetto e al sax, un vacuo esibizionismo effettistico che lo disgustava. Così finì quel momento, e iniziò, in contemporanea, a cercare un altro jazz e un altro modo per insegnare la marea di nozioni che aveva appreso ed elaborato nel suo percorso: ci torneremo. Era il 1943. Assetato di cultura vera, imparò la scrittura e la notazione in Braille, divorò le opere di Proust, di Dostoevskij, di Emily Dickinson. Poi arrivò New York, la New York degli anni Quaranta, dove mille teste irrequiete stavano cercando di muovere passi ulteriori su piste ignote nel jazz, stanchi solo di celebrare e suonare per vivere il pur efficacissimo «jazz da ballo» della swing Era. Tristano colse stimoli da Art Tatum, pianista che con il suo scavo armonico vertiginoso e imprevedibile aveva lasciato di stucco anche un giovanissimo Charlie Parker, pur non amandone gli esiti estetici, da Roy Eldridge, da Lester Young, da Billy Kyle: è esattamente la stessa pattuglia di musicisti che i bopper avrebbero preso a maestri, da lì prendendo le mosse. I primi dischi arrivano nel 1946, in trio con il chitarrista Billy Bauer e il bassista Clyde Lombardi: formazione dunque perfettamente identica a quella trovata da Nat King Cole, ma suo rovescio estetico secco, due mondi agli antipodi. Laddove Nat cerca e trova la fluente cantabilità dei temi e la comunicativa, Tristano sperimenta la politonalità, mettendo assieme accordi maggiori e accordi minori, e comincia a introdurre quei blocchi serrati e di contrappunti poliritmici che poi segneranno tutta la sua maturità.

Da subito, per l’evidente impossibilità di essere musica «carina», le note di Tristano vengono inscritte d’ufficio al «cool». Dizione per certi versi valida, a patto di non resuscitare la sfinita diatriba su jazz «caldo» e «freddo», nata da un equivoco colossale sui termini, e ancora imperversante dalle nostre parti. La musica di Tristano è «cool» non perché ci sia qualcosa di «freddo», ma perché il pianista mantiene una sorta di affascinante e apparente distacco rispetto alla reale incandescenza del suo operato musicale, nato da un altrettanto ustionante pensiero estetico. Nelle sue stesse parole: «Cool jazz è un termine stupido. Il jazz che noi si suonava non era affatto freddo. Era rilassato, era privo di spettacolarità, era serio e impegnato, questo sì, ma non era certo freddo».

CONTRAPPUNTI

Armonie alterate, dissonanze tattiche strategiche disseminate nel fluire, l’implacabilità di flussi di note apparentemente infiniti dalla mano destra che cercano e trovano i più sorprendenti appoggi su metri diversi, e su tutto, l’uso radicalmente innovativo del contrappunto: che non cerca mai la filante complementarietà di «nota contro nota», come dice il termine, ma l’urto e lo stress di due mani che configgono e si muovono in totale indipendenza l’una verso l’altra. Anche i temi iniziali dei brani, che perfino i bopper comunque proponevano all’inizio e alla fine dei brani, per abbandonarsi poi a tracimanti improvvisazioni, con Tristano si sfaldano, o addirittura non vengono mai citati direttamente, né all’inizio né alla fine: lavora sotterraneamente la griglia armonica di base, spesso trasposta in tonalità inconsuete, o in minore.

Questo sistematico rovesciamento delle regole fa sì che, già nei primi anni del secondo dopoguerra, Lennie Tristano provasse con i suoi allievi e con i suoi amici musicisti più fedeli e motivati libertà espressive che sarebbero state scoperte e praticate dagli uomini della New Thing una decina abbondante d’anni dopo: e dunque improvvisazioni collettive, ridimensionamento dei carichi armonici, ritmiche in libertà, tonalità elusa o scavalcata. Un percorso che per certi versi tentarono anche altri musicisti della ricerca jazz da rivalutare: il primo Charles Mingus, Jimmy Giuffre, Chico Hamilton, per citarne alcuni. Lo trovate ad esempio in Intuition, pietra miliare registrata da Tristano con Lee Konitz, Warne Marsh, Arnold Fishkin e Bauer il 13 maggio 1949, contravvenendo a quasi ogni regola del «buon jazz» che faceva battere il piede. Tristano si mosse con audacia visionaria anche rispetto alle intuite possibilità offerte dalla «nuova» tecnologia del nastro magnetico per registrare: capisce, come avrebbe poi compreso, mutatis mutandis, il Frank Zappa delle composizioni al synclavier degli ultimi anni, quasi impossibili per mani umane, che l’asticella della musica può essere innalzata tanto in alto che neppure si riesce più a vederla. E così nasce un brano, nel 1953, che tutt’oggi è un vertice e un vortice d’inquietudine creativa e di maestosità, Descent into the Maelstrom. Per raccontare in musica l’agghiacciante storia di Edgar Allan Poe che scrive di come un marinaio riesca a sopravvivere al mostruoso gorgo che inghiotte la sua nave, Tristano sovraincide tre furiose, implacabili cascate di note dal suo pianoforte, che a volte trovano momenti di consonanza, e perlopiù invece trascinano in un magma molto «trance» l’ascoltatore: certe cose di Stockhausen o dei Pink Floyd di A Saucerful of Secrets vanno cercate qui. E anche l’urto possente di Cecil Taylor sulla tastiera qui trova radicali appigli. La «Discesa» non verrà mai pubblicata da Tristano, che forse intuisce la carica eversiva del brano. Emergerà nel 1979: dunque i nomi citati decenni dopo precorsero quelle medesime, impressionanti strade, convinti di essere i primi a metterci piede. 

A SCUOLA

La tecnica delle sovraincisioni, e l’uso di nastri registrati a una certa velocità, e poi riproposti con velocità diverse fino a creare un oggetto sonoro nuovo e unico fu usata spesso da Tristano: nel 1955 la Atlantic accetta di pubblicargli un disco che porta semplicemente il suo nome, Tristano, e lì trovate, oltre a belle tracce con il suo allievo Konitz, anche quattro prove pianistiche che scardinano ogni idea preconcetta di timbro, di continuità ritmica e di «bel suono». Un altro disco bello, impervio e decisivo uscì nel ’61, The New Tristano. Anche qui, molte delle sue idee si sarebbero ritrovate anni dopo: ad esempio nei «clash» ritmici di Steve Reich. Molti critici lo sostengono e lo incoraggiano: ma Tristano non è uomo che apprezzi lusinghe e riconoscimenti eccessivi. Il pianista cieco, a parte un breve tour europeo nel 1965, che comunque ci restituisce nei fotogrammi l’immagine di un uomo affaticato, ma ancora straordinariamente efficace anche nelle prove «live», scelse poi di auto-esiliarsi in casa, dove si dedicò all’insegnamento con un rigore quasi ascetico.

Molti suoi allievi lo chiamavano «lo stregone». Il sassofonista italiano Cesare Marchini, scampato a un campo di lavoro forzato nazista, e finito come esule istriano negli States, divenne uno dei suoi allievi prediletti, assieme all’amico di tutta la vita Lee Konitz: nel video che racconta la sua storia incredibile parla di un didatta che faceva imparare a memoria gli assoli dai dischi, e li faceva ricantare nota per nota, senza strumento, che voleva risposte precise sugli intervalli impervi che proponeva al pianoforte senza che gli venissero guardate le mani. Di lezioni sulle poliritmie, sulle estensioni, sulle sostituzioni. A tutti diceva: «Le cose si possono fare in due modi, bene o male. A scuola da me si fanno in un solo modo: bene». Era una scuola severissima, dove ogni tanto faceva capolino anche il fratello di Lennie, psicanalista. Da lì uscirono i citati Konitz e Marchini, ma anche Warne Marsch, Roger Williams, Ted Brown, Sal Mosca, Bill Russo, Phil Woods, Sheila Jordan, e un nome che molti non crederanno: il chitarrista virtuoso rock Joe Satriani. Tristano muore il 18 novembre 1978, a cinquantanove anni. In Europa la notizia arriva dopo parecchi giorni. Nel 1989 la città di Aversa gli ha dedicato una strada.

(nella foto Lennie Tristano al piano)