Sascha Feinstein insegna inglese e scrittura creativa presso il Lycoming College di Williamsport, nella verdeggiante Pennsylvania. Il prestigioso istituto sta per compiere duecento anni, eppure lungi dall’essere immobile (come i suoi prati curati e le architetture neoclassiche) rappresenta un centro di fermenti culturali. Qui nasce la rivista «Brilliant Corners», l’unica a occuparsi negli Stati Uniti di jazz e letteratura pubblicando poesie, racconti, estratti di romanzi, saggi di autori contemporanei. Tra i collaboratori di spicco e relativi scritti della rivista pochi sono disponibili al lettore italiano, ma abbiamo la possibilità di leggere i lavori di ben due vincitori di Pulitzer: il primo è Charles Simic e il secondo Yusef Komunyakaa, del quale nel corso dell’intervista si cita «Testimony», tributo in versi a Charlie Parker contenuto nella raccolta «Il ritmo delle emozioni» (Liberodiscrivere, 2004).

Sascha, poeta egli stesso, è fondatore e direttore della rivista e sul binomio letteratura/jazz ha compilato numerose antologie. Spiritoso e disponibile, nel tempo libero suona il sassofono e spesso si esibisce nel campus assieme agli studenti.

Come hai iniziato a scrivere poesia? Il tuo interesse è nato contestualmente a quello per il jazz?

«Sono cresciuto in una famiglia ‘artistica’: i miei genitori erano entrambi pittori e ho sempre saputo (fin dalla culla, direi) che l’arte sarebbe stata al centro della mia vita. Nell’infanzia ho scritto poesie e racconti: roba terribile! Contemporaneamente dipingevo e studiavo musica. L’interesse per il jazz è nato prima che io pensassi di diventare uno scrittore. Mio padre e un suo caro amico mi spalancarono il mondo del jazz quando avevo tredici anni e il potere estetico di quella musica mi sopraffece. Non ho mai sentito suoni migliori nella vita. Provavo la necessità di ascoltare tutto quello mi passava per le mani e di approfondire la conoscenza con i geni che avevano creato questa musica. Iniziai a improvvisare al clarinetto e al college cercai seriamente di combinare insieme le mie passioni scrivendo di jazz».

Quale è il singolo elemento caratterizzante o importante che il jazz porta alla tua poesia?

«Non sono sicuro che vi sia un singolo elemento del jazz che vada sottolineato come influenza; però non posso scrivere senza leggere le parole ad alta voce. Il mio orecchio è un critico altrettanto buono quanto l’occhio. Cadenza, variazione ritmica e musicalità del linguaggio si devono percepire. Penso che il mio senso del verso e dell’interruzione della strofa, dello spazio bianco come silenzio necessario debbano molto alla musica».

Come direttore della rivista «Brilliant Corners», come poeta e autore di libri di critica tu sei la persona ideale con la quale parlare del rapporto tra jazz e poesia. Come funziona questo scambio musica-letteratura?

«Innanzitutto rispetto il jazz e la letteratura come arti a se stanti. Il processo di produzione le divide: il jazz tende a essere una esperienza di gruppo che emerge da un interplay di sensibilità artistiche, la scrittura rimane un lavoro solitario. I suoni poi sono più veloci: colpiscono il corpo con una immediatezza senza riscontri, la si giudica nel breve periodo, la letteratura richiede più tempo. Sbuffo quando mi dicono che la poesia ‘è’ jazz. Nessuna singola forma d’arte è esattamente parallela a un’altra. La poesia può esplorare attraverso le immagini e la narrazione una personale interpretazione della musica. Il linguaggio può farci ripensare il suono, anche in modo semplice come per il titolo di una canzone. Prendiamo ‘Alabama’ di John Coltrane. Dal momento che gli studiosi spiegano come questa composizione rispondesse all’atto terroristico compiuto in una chiesa di Birmingham, i suoni portano all’ascoltatore una maggior tristezza. O, se vogliamo cambiare mezzo espressivo, consideriamo il famoso quadro di Bruegel ‘Paesaggio con la caduta di Icaro’ . Senza quel titolo, avremmo un qualche collegamento per interpretare quelle minuscole, bianche gambette in mezzo all’oceano? Se anche dovessimo notarle, potremmo supporre trattarsi di un nuotatore un po’ matto. Mi sono spiegato? Recentemente ho intervistato Robin Kelley, autore di una brillante biografia su Thelonious Monk. Nel libro, Kelley spinge continuamente l’argomento verso le politiche razziste del tempo; così gli ho chiesto di fare una ipotesi: se noi sapessimo che Monk aveva composto ‘Brilliant Corners’ con in testa un intento politico, la metà lenta a rappresentare l’oppressione e il raddoppio del tempo a rappresentare la liberazione, tu ascolteresti la musica in maniera diversa? E Robin rispose, ‘ È una eccellente domanda’, poi dopo una pausa disse, È possibile, forse l’ascolterei diversamente’. Ma sono meno possibilista e poi sono convinto che lui la sentisse in un altro modo e io vorrei adeguarmi».

Il linguaggio direziona l’interpretazione.

«Ma gli incroci sono interminabili. L’argomento della poesia collegata al jazz fa sorgere infinite possibilità. Certe qualità formali della poesia – ritmo sincopato, chiamate e risposte improvvisate, sperimentalismo – sono state spesso fortemente messe a paragone con la musica. Le vite dei jazzisti sono spesso diventate nutrimento per un numero imprecisato di poemi e racconti. E potrei andare avanti per ore a parlare…».

Cito dalla tua antologia «Etheridge Knight»: Making jazz swing in/Seventeen syllables ain’t/No square poet’s job (far swingare il jazz in diciassette sillabe non è roba per poeti borghesi). Haiku jazz, perfetto…

«Mi manca Etheridge. Lo conobbi quando vivevo a Bloomington nell’Indiana, dove mi stavo laureando. Negli ultimi anni della sua vita tenevamo delle letture poetiche congiunte quando eravamo invitati agli stessi convegni e legammo molto. Andrebbe apprezzato maggiormente».

Ho letto in un’intervista che per «Brilliant Corners» cerchi poesie che dimostrino una profonda comprensione della musica e che «non cadano nel cliché, come il gergo hipster da beat generation…». Che sia materiale che «tocca le corde del lettore per i suoi meriti letterari e non perché semplicemente invoca il jazz…».

«Troppe proposte per ‘Brilliant Corners’ arrivano da gente che adora l’idea del jazz, che pensa a citarlo per essere alla moda, come fosse un Alka Seltzer contro tutti i mali, senza conoscerne la musica».

Poeti come Al Young e John Sinclair nel tuo libro di interviste citano «Natura morta con custodia di sax» di Geoff Dyer. Un lavoro controverso, chi lo ama e chi lo odia.

«Al (Young) conosceva Mingus e aveva trascorso del tempo con lui. Critica Dyer perché parlando di Mingus ne distorce la profondità artistica. Io sono d’accordo con lui su queste riserve, però il discorso non si chiude con la coppia amore/odio, come suggerisci. Ad esempio Al ne riconosce le capacità narrative e la prosa eccellente e io concordo: si può dire ancora tanto su certi eventi drammatici accaduti nella storia del jazz. Una cosa è scrivere che i poliziotti arrestarono Thelonious Monk perché non rispondeva alle loro domande e gli appariva minaccioso; ben diverso sentire le voci di quei razzisti in divisa e la Baronessa ( Pannonica, n.d.r. ) che li implora piangendo mentre assiste alla scena in cui manganellano le mani del pianista. Gli studiosi rischiano di essere controproducenti, anestetizzando la brutalità della vicenda; un narratore come Dyer è invece abilissimo nel rendere vivido il racconto».

Nei tuoi libri citi spesso Monk e altri pianisti come Fred Hersch e poi Tommy Flanagan, con un commovente ricordo… Non ti chiedo le preferenze, ma chi ha influenzato maggiormente il tuo lavoro?

«Possiedo più di 6500 dischi di jazz e la collezione si ingrossa sostanziosamente ogni anno. Saranno anche chiamati compact disc, ma non sono abbastanza «compatti»: mi stanno spingendo fuori casa! Non me la sento di nominare una manciata di lavori su tutti… Però menzioni Tommy Flanagan che andavo a vedere ogni volta fosse stato possibile. Nel gioco cretino dell’isola deserta, se potessi portarmi l’opera omnia di un solo artista, sarebbe la sua. Primo, i trii per piano rimangono tra i più incantevoli su disco. Poi come sideman ha partecipato a lavori straordinari come Saxophone Colossus di Sonny Rollins mentre le sue prime incisioni arrivarono con figure leggendarie come Davis e J.J. Johnson e ‘Giant Steps’ di Coltrane!»

Perché nella poesia jazz i nomi di Coltrane, Monk e Parker sono tanto sfruttati? Ci sarebbero altri personaggi… Nella tua antologia ricordo un poesia di Hayden Carruth che aveva per oggetto il trombonista Vic Dickenson. Perché pochi seguono il suo esempio?

«I poeti amano la tragedia. In parte è uno dei motivi per cui Coltrane, Bird – ma aggiungerei anche Billie Holiday – sono stati tanto intensamente immortalati nei versi. È significativo notare che ben pochi poemi su Trane, Parker o Lady Day siano stati composti mentre erano in vita. Monk invece si trova in una categoria differente: sebbene anch’egli abbia attraversato tante tragedie, è stato soggetto di centinaia di poesie a causa delle sue eccentricità. Non voglio insinuare che la poesia sia sensibile solamente alla tragedia o alle stranezze. I migliori poemi dedicati al jazz vanno oltre questo approccio facile. Penso al brillante tributo di Yusef Komunyakaa a Charlie Parker, Testimony . Ma se si parla di numeri la risposta corretta mi pare questa!».