Senza particolari proclami sulla parità di genere, il Jazz Festival Willisau non lesina sulle presenze femminili. Dopo due anni di stop dovuto al covid, la storica rassegna svizzera è ripartita (31 agosto-4 settembre) affidando l’apertura al Tiger Trio formato dalla flautista Nicole Mitchell, dalla pianista Myra Melford e dalla contrabbassista Joëlle Léandre: Nicole Mitchell è una figura di spicco della generazione che ha rappresentato il ricambio della AACM di Chicago dopo quella dei Roscoe Mitchell, Anthony Braxton, Leo Smith emersi nella seconda metà degli anni sessanta; Myra Melford ha un curriculum di quarant’anni ad altissimo livello nell’avanguardia; Joëlle Léandre, francese, è da decenni una formidabile protagonista della free music europea. Non tutte le situazioni che creano sono perfettamente a fuoco, ma il senso anche teatrale di Léandre per l’improvvisazione è sempre impagabile, e lo spessore espressivo e la non convenzionalità del pianismo di Melford sono impressionanti, e si può solo rimpiangere che non si esibisca abbastanza spesso in solo o in trio piano/basso/batteria; dal canto suo Mitchell è una notevole strumentista, anche se non sempre assistita da una vena spiccatamente originale come improvvisatrice. Subito dopo di loro si esibisce Pack of Ten, una compagine guidata dalla pianista tedesca, e svizzera di adozione, Claudia Ulla Binder, che dagli anni ottanta ha avuto a che fare con fior di improvvisatori d’oltre Atlantico ed europei. Con alle percussioni un veterano dell’avanguardia come Gerry Hemingway (lo ricordiamo in tante occasioni alla batteria con Braxton, o col trombonista Ray Anderson, oltre che come leader), il tentetto lavora sull’informale, senza cedere a stilemi da orchestra jazz: l’emergere dei solismi è tutto mirato al flusso complessivo, alla creazione di atmosfere, vuoi più dense vuoi più rarefatte,  l’improvvisazione è minuta, e la formazione ha un “suono” molto coerente. Al violino e ai fiati quattro giovani musiciste: da segnalare almeno i nomi delle due trombettiste, Liz Allbee e Lina Allemano, molto convincenti nella loro impronta radicale e nell’utilizzo di tecniche estese. 

Sound of Serendipity

PER META’ FEMMINILE il quartetto Sound of Serendipity guidato dallo svizzero Lucas Niggli. Molto “percussionista” nel suo approccio al drumming, batterista dinamico, nitido, con un bel senso dei colori, Niggli è da tanti anni un leader intelligente e animatore di progetti brillanti. La dimensione del gruppo è molto collettiva e paritaria: gli interventi delle giovani Tizia Zimmermann alla fisarmonica e Silke Strahl al sax tenore (il quartetto è completato da Christian Weber al contrabbasso) sono sempre interni, “subordinati”, alla creazione di un amalgama, senza spazio per individualismi. In una lunga sequenza di quaranta minuti, le atmosfere si possono arroventare fino ad accesi momenti free: la musica non è affatto arida, ma c’è un rigorismo che se non penalizza Niggli finisce per sacrificare forse troppo le soggettività delle due musiciste. Suonano invece con grande spontaneità, senza porsi limiti, altre due giovani musiciste, le francesi Camille Emaille e Nina Garcia, rispettivamente alla batteria, con un drum set non ortodosso, e alla chitarra elettrica. Emaille ha una bella grinta, Garcia è senza remore in una prestazione che è tutta rumorismo, effetti e suoni: non è facile reggere senza cadute di tono una musica così, senza rete, e loro sono molto brave a condurre con grande convinzione il loro set. Niente concessioni, solo una sorta di melodia che Garcia lascia poeticamente emergere dopo quaranta minuti senza soluzione di continuità: saper chiudere nell’improvvisazione è un’arte. Poi un bis. Non funziona granché invece il set della sassofonista Maria Grand, svizzera ma da anni trapiantata a New York. Ci aveva fatto un’ottima impressione qualche anno fa ascoltandola dal vivo col gruppo Code Girl di Mary Halvorson. Ma essere leader è una cosa diversa dal figurare bene in un progetto altrui. In trio con basso/contrabbasso e percussioni, comincia parlando di rispetto per la terra e la gente, più avanti tira in ballo la meditazione, spesso canta o dice dei testi in inglese o francese; nel suo sax tenore c’è un sospetto di freddezza, di mancanza di comunicativa: ma soprattutto la sua esibizione è dispersiva, piuttosto velleitaria, e finisce senza essere mai decollata. 

foto di Alessandro Petriello

 

MA FRA LE NUMEROSE presenze femminili di questa edizione del festival bisogna ricordare anche una protagonista storica della ricerca sperimentale sulla vocalità, Lauren Newton, americana di nascita, negli anni settanta poi spostatasi in Europa, e le quattro musiciste del Mondrian Ensemble di Basilea, che, non abituate ad esibirsi in festival di jazz, hanno eseguito alcune composizioni contemporanee e hanno ricevuto un’accoglienza molto calorosa. A gestire un set ci sa fare Ben Lamar Gay, musicista afroamericano del giro della etichetta chicagoana International Anthem, uno dei personaggi di cui più si parla in questi ultimi anni. Con Will Faber, chitarra e voce, Matt Davis, sousaphone e voce, e Tommaso Moretti, batteria, Lamar Gay comincia con campanacci e sonagli, e canta: Lamar Gay ha trascorso un periodo in Brasile, e il suo canto ha l’aria di una invocazione agli orishas, e viene da subito in mente anche un’affinità con certe cose di Rob Mazurek, di Chicago, anche lui cornettista, e per molti anni in Brasile (Lamar Gay è più giovane di Mazurek). Fin dall’inizio nella performance di Lamar Gay c’è qualcosa di un cerimoniale, e questa dimensione cattura lo spettatore e se lo porta poi dietro per tutta la durata dell’esibizione. Nel creare il clima chitarra e batteria sono efficacissimi e puntuali, e il sousaphone interviene in maniera suggestiva; Lamar Gay imbocca qua e là la cornetta, in interventi brevi ma espressivi, suona il synth, canta. C’è un passaggio rarefatto in cui lui e i musicisti suonano dei campanelli, cominciano a seguire un ritmo, su cui poi parte perentoriamente la batteria, ed è un momento di grande effetto, il gioco coi campanelli è anche visivamente molto elegante. Ci sono tanti elementi che si succedono: i singoli elementi non sono magari clamorosi, ma l’insieme funziona, e questo flusso in cui galleggiano frammenti e suggestioni ha una sua seduzione postmoderna. 

A gestire un set ci sa fare Ben Lamar Gay, musicista afroamericano del giro della etichetta chicagoana International Anthem, uno dei personaggi di cui più si parla in questi ultimi anni.

TRA LE COLLINE a una trentina di chilometri da Lucerna, Willisau è una tranquilla cittadina agricolo-industriale dove Niklaus Troxler, brillante grafico, ha cominciato a organizzare concerti di jazz d’avanguardia nel ’66; poi nel ’75 ha varato questo festival che può vantare decine di album live ricavati dai suoi concerti, con protagonisti stratosferici come Cecil Taylor e Braxton. Nel 2010 Troxler, che continua a essere puntualmente presente al festival, ha passato la direzione al nipote Arno. Tornando dopo diversi anni ci ha colpito il pubblico: prevalentemente maschile e in buona parte decisamente attempato. Si direbbe che malgrado il suo prestigio e la sua continuità il festival di Willisau non sia riuscito a mettere in moto un vero ricambio, portandosi dietro invece gli appassionati della generazione che ha cominciato ad ascoltare il jazz d’avanguardia a cavallo fra seconda metà degli anni sessanta e prima metà dei settanta. Da cui lo strano effetto di vedere tanti giovani musicisti/e esibirsi per spettatori che potrebbero essere i loro nonni.