«Le mostre di copertine in questi anni si sono moltiplicate. Per valorizzare al meglio l’archivio dell’Associazione Alec Gianfranco Alessandria della città di Alba avevo bisogno di un filo conduttore e l’ho individuato nell’arte. Le cover dei dischi jazz sono spesso ‘belle’. Perché? Perché pur essendo un tipico prodotto dell’industria culturale di massa ci lavorano grandi artisti come Andy Warhol o perché le opere di altri pittori, storicamente fondamentali, sono state riprese sui vinili, come capita a De Chirico o Rousseau per i dischi di Thelonious Monk. L’ibridazione tra arti visive e jazz è stata profonda. Mi sono lasciato guidare dal materiale a disposizione per indagare alcuni momenti meno noti del connubio». A parlare è Franco Bergoglio giornalista, politico, critico e studioso di musica afroamericana, nonché collaboratore della nostra testata, che ha curato la mostra Jazz! Arte in copertina (fino al 5 giugno), presso il Palazzo Banca d’Alba nella cittadina piemontese, ideando un percorso tra rari e noti vinili jazz, le cui cover (o copertine) spaziano artisticamente dal surrealismo alla pop art, da Henri Matisse a Jackson Pollock, giovandosi del progetto grafico di Enzo Patri e dell’allestimento scenico di Danilo Manassero.

EVENTO CULTURALE
La mostra si caratterizza quale evento culturale di notevole fascinazione, grazie alla meticolosità con cui Bergoglio, in due anni di ricerca, seleziona da circa 20 mila vinili 130 copertine che esprimono al meglio un’arte – quella appunto delle immagini dei dischi a 33 giri – oggi di nuovo tornata al centro d’interesse grazie alla rinascita del formato long playing accanto al sempre più oscurato compact disc e all’offerta liquida ancora preponderante (e tecnologicamente modernissima). Oltre a constatare la bellezza estetica delle immagini sugli album quadrati, Jazz! Arte in copertina evidenzia anche la positiva opportunità di impiegare le collezioni private divenute bene culturale pubblico grazie alle donazioni, in questo caso di un collezionista, il succitato Alessandria, il quale post mortem ottiene quanto invece ancora manca per moltissime analoghe situazioni. In Italia, per motivi anagrafici, stanno infatti scomparendo le generazioni di jazzofili, che, grosso modo tra gli anni Cinquanta e Ottanta, fanno dell’ellepì un oggetto di culto, uno strumento di conoscenza, un mezzo di scambio, una chiave di lettura della musica, persino un oggetto politico e una visione del mondo nell’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come indica, con acuta preveggenza, il sociologo Walter Benjamin già nel 1935.
Il destino delle migliaia di ellepì che il libero cittadino italiano vorrebbe regalare a istituzioni quali biblioteche, conservatori, università, licei, circoli, jazz club resta incerto, fluttuante, periglioso: il rischio che i preziosi vinili giacciano a tempo indeterminato in scatoloni di polverosi magazzini o in cataste presso inaccessibili depositi, senza venire catalogati o messi a disposizione degli utenti, è confermato in tante città, mentre le associazioni virtuose che ricevono e promuovono le donazioni al momento sono rarissime: Siena Jazz e il Jazz Museum a Genova in primis, la nuova sede del Novara Jazz Fest e l’erigenda Casa Jazz Vercelli in seconda battuta, oltre appunto l’efficacissima associazione albese. L’utilizzo dei long playing, in tali favorevoli condizioni, può via via riguardare l’ascolto in cuffia in apposite sale (pionieristica in tal senso l’offerta della Biblioteca Musicale Della Corte a Torino), l’inventario con relativa pubblicazione (sul modello del fondo Arno Carnovale, a Valenza, gestito da Stefano Zenni, ma al momento fermo per mancanza di fondi), la duplicazione su cd o file per motivi di studio (eseguita, ad esempio, da Guido Festinese al museo ligure, al momento chiuso per le bizze delle giunte di centrodestra).

POTENZIALE VISIVO
E poi esiste, dulcis in fundo, il potenziale visivo espresso dalle copertine che, soprattutto nel jazz, arriva a firmare (e formare) un immaginario collettivo unico nella storia della figurazione soprattutto nel secondo Novecento.
Il jazz è il primo e, per diverso tempo, unico genere musicale a sfruttare appieno le risorse offerte dalla confezione cartonata del nuovo supporto fonografico: il disco a 33 giri in materia plastica (resinato di etilene o vinile) viene commercializzato dal 1948 e la musica classica è la prima a giovarsi della lunga durata (circa 20 minuti a facciata) nel registrare un catalogo quasi infinito di partiture sinfoniche, concertistiche, operistiche, eccetera. Per contro la popular music, fino a metà anni Sessanta, preferisce il singolo a 45 giri ottimizzando l’ellepì soprattutto per antologie e greatest hits: il jazz giunge persino a ribaltare la propria estetica, pensando all’album non più quale contenitore di brani, ma un medium specifico sempre più vicino alla modalità del concerto o all’idea del progetto artistico, dove ad esempio i jazzisti sono liberi di lavorare sui loro assolo senza vincoli temporali. Grazie al 33 giri tutto il jazz registrato insomma diventa una sorta di concept album ante litteram, poiché racchiude un testo concluso, un oggetto con un inizio e una fine in due tempi (lato A e B), un prodotto bisognoso di un coinvolgimento anche visuale. In tal senso la copertina – dal retro spesso carico di informazioni scritte – assolve a un ruolo comunicativo importante: evocava mediante forme, linee e colori, figure, archetipi, il contenuto dei suoni nel microsolco.

UNA NUOVA ESPERIENZA
A distanza di decenni, finita la stagione aurea della Jazz Cover, quando il rock e il pop negli anni Settanta, avvalendosi di grafici, fotografi, pittori, designer, pubblicitari, con mezzi economici superiori, inizia a predominare nella cosiddetta cover art, ripercorrere con Bergoglio il cammino inverso, conduce a una nuova esperienza multisensoriale. «Nella mostra – spiega Franco – il jazz riveste un ruolo da non protagonista: invece di Mingus, Rollins o Brubeck celebriamo il lavoro di artisti come David Stone Martin, Reid Miles, Paul Bacon, nomi spesso noti solo agli appassionati. Ho cercato chiavi di lettura originali che rendessero giustizia all’incontro arte-jazz. Uno dei pannelli parla della Scuola di New York, termine che gli storici dell’arte associano all’espressionismo astratto, ma che possiamo tranquillamente abbinare al jazz visto che entrambi condividono la città, il periodo storico e la radice di alcune idee su performance e improvvisazione. Un paio di sezioni della mostra mettono in relazione l’arte delle copertine con altri prodotti coevi della cultura di massa. Per brevi flash ricostruiamo la figura della pin-up che transita dalle cantanti jazz ai romanzi gialli della scuola americana, dai fumetti a Jessica Rabbit, passando addirittura per Franz Kline».
La mostra è per tutti una festa per occhi e orecchie, che si rivolge a un pubblico eterogeneo ricercando inediti accostamenti cromatici, visuali, stilistici, figurativi: un’idea che potrebbe avere persino molti seguiti, data anche la varietà con cui la musica e la copertina si scambiano reciproci favori artistici.