“Devi comportarti come se fosse possibile cambiare radicalmente il mondo e devi farlo costantemente”: questo era l’invito di Angela Davis ed anche il faro del prezioso festival Jazz a Luz, un’utopia realizzata da ventinove anni lungo le strade di un paese di nemmeno mille abitanti. Nel cuore del Pays Toy, una delle sette vallate dei Pirenei francesi, quattro giorni di immersione totale nelle musiche creative, spaziando dal jazz al folk tradizionale, dall’elettroacustica alle fanfare di strada, dal noise più ispido alla musica a cappella, in formati variabili dal solo  fino alla big band. È soprattutto sulle possibilità del duo che la rassegna si interroga, alternando incontri inediti e situazioni già strutturate.

COME LA COPPIA Peter Brotzmann Heather Leigh, dove l’insolito accostamento tra i toni languidi della pedal steel e la voce terrigna del sax porta gli ascoltatori in una strana terra di nessuno, tra piani sequenza cinematografici ed i furori del free europeo. Una sorta di gospel metafisico e sghembo, un dialogo nel buio, linee parallele che a volte si incontrano creando nuovi mondi. Gli stessi evocati dal duo norvegese di Sidsel Endresen (voce) e Stian Westherus (chitarra): uno dei set più classici della storia del jazz viene qui felicemente stravolto grazie all’inventiva degli interpreti, capaci di cesellare carillon, nenie boreali, ballate pagane, con la musica a fuoriuscire da insondabili meandri come acqua sulfurea da un geyser, tra eruzioni vulcaniche ed il canto in una lingua impossibile di un angelo ferito; un esperanto da strega a metà strada tra Patty Waters e Robert Wyatt, con Westherus a sondare le viscere della terra con la sua chitarra. Sembrano invece arrivare da un battello in balia di onde patafisiche le note dell’ Orchestre Merversible: tra Ubu Re, Nino Rota e frammenti di lirica, una stimolante idea di street band anti retorica ed obliqua, notevole.

UNA CONFERMA è invece l’alto livello dell’Onj, l’ Ochestre nationale de jazz, che sotto la guida del nuovo direttore Frédéric Maurin propone un programma dedicato ad Ornette Coleman, con Tim Berne come ospite. Oltre al gigante di Forth Worth l’ensemble paga tributo anche ad Eric Dolphy e Julius Hemphill: lunghe orbite ellittiche, esplorazioni dove incontriamo sirene elettriche (una magistrale versione di Lonely Woman), torrido funk, blues mutante: tutto è calibrato al millesimo, si scava nelle profondità della storia del jazz per estrarne nuove pepite, a dimostrare che si può ancora  dare nuove parole a quanto è stato già detto. Un gioioso catalogo di invenzioni è quello offerto da Za!, un eclettico duo catalano, capace di fare scatenare il pubblico in danze sfrenate al ritmo di un folle blob elettrico tra estasi percussiva africana e nevrosi giapponesi, sulle orme dei Boredoms. Batteria ed elettronica, kraut anfetaminico, euforia, adrenalina; un meccanismo folle e perfetto approntato da due talentuosi iperattivi, abili nel mescolare attitudine hardcore, uno swing inarrestabile e fibrillante in un caleidoscopio fluorescente dove tutto si tiene. C’è spazio anche per l’incontro tra rap e New Orleans dei Bad Fat con Napoleon Maddox, tra Wu Tang Clan e Sons of Kemet. Caratteristica speciale del festival è l’ubiquitá: diversi luoghi accolgono queste musiche cocciutamente ed orgogliosamente diverse. Tra questi anche una splendida escursione in montagna, dove Noorg, con il loro magico flusso drone hanno riportato tutto all’origine, al magistero senza parole del puro suono, intonando un mantra per le vette. Le divinità nascoste tra le nuvole avranno sicuramente approvato.