«Un giorno, farai un viaggio per venire da noi. Come un’avventura. Come Simba prima di tornare a casa». È questa la frase che, dalla California, i genitori ripetono per telefono a Javier Zamora, nove anni: la voce profonda appartiene al padre, emigrato quando lui era piccolissimo e del quale non ricorda nulla, quella più familiare e amata coincide con il volto della madre partita tempo dopo, un’assenza che né i nonni, né gli amici riescono a rendere meno ingombrante.

Se i genitori di Javier se ne sono andati, non è solo per l’ estrema povertà del loro paese, El Salvador, ma anche per la guerra civile che, tra il 1980 e il 1992, ha causato devastazioni incalcolabili e ottantamila morti, e ha poi lasciato il posto al confronto altrettanto sanguinoso tra una polizia brutale e le maras, i gruppi criminali che taglieggiano la popolazione e impongono la propria legge.

È da tutto questo che i Zamora sono fuggiti, per approdare come indocumentados in paese le cui politiche non sono estranee alla disperazione che costringe i salvadoregni a emigrare, ma dove possono comunque guadagnarsi da vivere, sia pure sotto la costante minaccia di essere deportati.

ADESSO TOCCA A JAVIER raggiungerli, affidato, come migliaia di bambini centroamericani prima e dopo di lui, a un coyote: un viaggio cominciato nell’aprile del 1999, che dovrebbe durare pochi giorni ma si prolunga per quasi due mesi, perché il piccolo gruppo di migranti viene abbandonato dal suo «traghettatore» e deve affrontare un percorso lunghissimo e infinitamente rischioso, anche se meno di quanto lo sarebbe oggi, dopo che gli Stati Uniti hanno militarizzato i loro confini e spinto il Messico a imitarli.

Adolescente turbolento e ribelle, ma bravo studente e poeta di valore che si è guadagnato prima una borsa di studio per Berkeley e poi una carta verde per «meriti speciali», Javier è riuscito a metabolizzare la sua storia solo a partire dal 2019, alla soglia dei trent’anni, spinto da un disagio profondo davanti alle immagini dei tanti bambini unaccompanied arrestati e chiusi in gabbia durante l’amministrazione Trump, o fulmineamente deportati grazie al Priority Juvenile Docket obamiano.

E adesso il suo lungo racconto arriva in libreria, a brevissima distanza dall’edizione americana, il cui titolo originale (Solito, cioè «Da solo») è diventato in italiano Se su questo deserto piovessero stelle. Una storia vera (Utet, pp.448, euro 20): un libro che si aggiunge a un vasto corpus fatto di ricerche accademiche, documenti, reportages, storie sui e dei «minori non accompagnati» e qualche romanzo eccezionale, come Archivio dei bambini perduti della messicana Valeria Luiselli (La Nuova Frontiera, 2019).

COME ALTRI AUTORI, scrivendo della traversata verso una «Gringolandia» molto diversa da quella idilliaca e opulenta che sognava, Zamora ci mette di fronte a qualcosa che riguarda da vicino anche il nostro paese: carovane di fuggitivi, negazione dei diritti di asilo, corpi ignorati, perduti, stipati nei centri di detenzione. Il testo, tuttavia, non si limita a offrire una testimonianza di prima mano su quel che significa essere un bambino in condizioni di assoluta vulnerabilità, sopravvissuto grazie alla famiglia transitoria e improvvisata composta dai casuali compagni di viaggio.

Non sono soltanto immagini crude, paura, brutalità, armi puntate, fatica e sofferenza, quelle che arrivano al lettore attraverso una voce diretta e priva di retorica, semplice ma solo in apparenza ingenua, perché non mancano lampi di umorismo, l’incanto singolare del paesaggio e della vegetazione, il bagliore delle stelle nel cielo del deserto, lo stupore, le allegrie che nascono da scherzi condivisi, dal cibo caldo, da affetti e gentilezze inattesi. Ogni pagina ci ricorda che l’autore è un giovane poeta capace di trasferire in prosa i temi e le immagini dei suoi versi (la migrazione, la memoria, il trauma, lo sradicamento, l’identità, l’infanzia troncata dal viaggio), in costante dialogo con l’esperienza vissuta e oltrepassando con decisione il confine tra memoir e letteratura.

L’USO DEL «CODE-SWITCHING» – ovvero i frequenti cambi di registro idiomatico, che la traduttrice Francesca Pe’ ha saputo rispettare e restituire -, innesta nell’inglese i lemmi, le costruzioni e la punteggiatura dello spagnolo salvadoregno, il caliche, in parte derivato dalle lingue indigene: un bilinguismo che procede per accenni e non ostacola la lettura, ma vuole recuperare e onorare l’idioma dell’infanzia e allo stesso tempo sottolineare la nascita di un’identità personale e artistica transnazionale, intrisa di differenti influenze linguistiche e culturali, che apre infinite possibilità espressive e riscatta la voce in prima persona dell’infanzia migrante, riconoscendole i privilegi narrativi derivati da una grande e dolorosa avventura. Una voce degna di quello che Zamora definisce «un supereroe» della sopravvivenza, come sempre sono i bambini. E dopo aver letto il suo libro non è difficile dargli ragione.