Qualche capello grigio e qualche ruga in più, l’espressione più ieratica che mai, e un body language robotico che ricorda quello di Kiefer Sutherland nelle ultime stagioni di 24, Jason Bourne/Matt Damon riaffiora in superficie dopo l’intervallo (e spin off mai decollato) di The Bourne Legacy, con Jeremy Renner. Dietro alla macchina da presa torna anche, insieme a Damon, la firma più autorevole della franchise, Paul Greengrass. Ancorando il film al presente di un’Europa in subbuglio, la storia parte da Atene, dove si manifesta in strada contro il disastro economico e dove Bourne – tra Fight Club, Il cacciatore e Hard Times di Walter Hill- è un taciturno campione dei circuiti di pugilato a mani nude. La radicale auto psicanalisi di questo uomo senza qualità del terzo millennio viene però interrotta quando la sua ex collega Nicky Parsons (Julia Stiles), passata dalla parte di un gruppo di hackers, lo contatta dopo aver rubato dei documenti della Cia che contengono informazioni su piani segretissimi in procinto di essere implementati.

Se i file raggiungeranno il pubblico, «potrebbe essere peggio di Snowden» , dicono a Langley, dove il direttore della Central Intelligence Agency, Robert Dewey (Tommy Lee Jones, con la faccia che cade a pezzi), e la sua ambiziosa collaboratrice (Alicia Vikander) scatenano una caccia all’uomo, e alla donna, all’ultimo sangue. Per essere sicuro di sistemare Bourne una volta per tutte, Dewey recluta anche un agente/killer francese (Vincent Cassell), che fende l’aria, le folle e le pallottole, con la determinazione di un Terminator.
La macchina/tappeto volante di Greengrass, nel perpetuo, convulso, movimento a cui ci ha ormai abituati il suo cinema, ci porta a velocità sfrenata nel solito circuito di capitali europee e metropoli con cui si condisce ogni thriller ambientato sullo sfondo delle global wars e della global economy – Berlino, Londra, Roma, Reykjavik, Washington verso un gran finale nel deserto del Nevada.

Di tutti i detour, quello più interessante è a Silicon Valley, dove vive e prospera un tycoon dei social, alla Zuckenbeg, Aaron Kalloor (Riz Ahmed, protagonista della bella serie Hbo The Night Of), che (forse) – per lanciare il suo startup, Deep Dream, oggi con 1.5 miliardi di utenti – ha stretto un patto con il diavolo Cia da cui (forse) vuole districarsi pubblicamente, in occasione di una grossa convention che si tiene a Las Vegas

Introducendo il personaggio di Kalloor e inscenando la caccia a Bourne, sempre più come un videogioco della sorveglianza planetaria a cui nessuno può sottrarsi, Jason Bourne (in Italia dal 1 settembre, è passato fuori concorso a Locarno) invoca di nuovo la sfera dell’attualità, ma anche qui (come con l’inizio in Grecia) non va oltre l’accenno di superficie. Si cita la famosa back door che la Cia vorrebbe imporre ai servizi di telecomunicazioni, si parla di un’era «in cui la collezione di dosi massicce di data non è più sufficiente», bisogna accedere al quotidiano dei singoli in modo più capillare e permanente.

Ma ogni idea viene risucchiata da un nuovo inseguimento frenetico, ipertecnologicizzato. Non ultimo quello tra Bourne e il suo passato. Di film in film più scevro di emozioni ed empatia, l’agente ideato da Robert Ludlum e apparso per la prima volta nel 1980, nel romanzo Un nome senza volto, qui è stregato da flash-back sotto forma di incubo. Una piazza soleggiata –siamo a Beirut – il tavolino di un caffè a cui, ancora ragazzo, sta seduto insieme a suo padre, anche lui un fedele impiegato della Cia. Oltre all’informazione sui programmi futuri dell’Agenzia, i documenti hackerati da Parsons contengono dettagli sull’origine di Bourne. Come prevedibile, tutte le strade portano a Langley, welcome home Jason.