Sono passati cinquanta anni da quando due computer collocati in due atenei cominciarono a scambiarsi dati. Le università erano quelle di Santa Barbara e dello Utah; erano inserite nei progetti avviati dall’Arpa (Advanced Research Project Agency), l’agenzia federale americana lautamente finanziata anche dal Pentagono per sviluppare progetti ritenuti strategici per il paese. Di quei progetti ci sono montagne di dati e resoconti, ma in questo anniversario si possono però leggere ricostruzione fantasiose come se lo sviluppo della Rete sia dovuto solo alla buona volontà e alla mente di fantasiosi scienziati.
Certo viene citato Paul Baran, potente consigliere scientifico di vari governi americani, ma viene però omesso di citare la lettera inviata da Vannevar Bush già alla fine della seconda guerra mondiale – Manifesto per la rinascita di una nazione, Bollati Boringhieri – nel quale chiedeva al governo degli Stati Uniti di investire nelle comunicazioni elettroniche e della nascente cibernetica, ritenute a ragione settori strategiche del capitalismo che verrà. Un testo, quello di Bush, che ha costituito una esempio di una visione progettuale e di uno sforzo congiunto tra mondo politico, militare e scientifico in rafforzamento della difesa nazionale che ha segnato lo sviluppo sociale e politico degli Stati Uniti.

E SE IL PROGETTO Manhattan era stato l’antecedente, da quella lettera in poi si è saldata per sempre ricerca scientifica, programmi di rafforzamento militare e mondo delle imprese. Internet nasce dentro questo contesto di attivazione militare dei laboratori di ricerca, che troveranno una opposizione solo anni dopo, con il movimento contro la guerra in Vietnam. Di tutto ciò in questi giorni di rimembranza non ce ne è più traccia. Così, quello spirito congiunto di stato imprenditore, militare e ricerca scientifica (descritto efficacemente da Manuel Castells nel suo Internet Galaxy) è stato sommerso dalla retorica sulle mirabilie offerte dai mercanti di futuro. Cinquant’anni fa, in quello stesso paese, si aggirava un ragazzo alle prese con le prove di esistenza sana e anticonvenzionale dei propri genitori, due ebrei della diaspora che avevano abbandonato l’Ovest per la calda Arizona. I genitori volevano curare le proprie ferite dell’anima dovute ai ricordi dello sterminio delle proprie famiglie e dei pogrom europei dai quali erano fuggiti. Avevano scelto l’Arizona perché c’erano pochi ebrei e perché indicata come una terra che prometteva tranquillità e possibilità di una vita decorosa senza troppe angosce di sopravvivenza economica.

Il giovane, al secolo Jaron Lanier, cresce e frequenta buone scuole; ha una formazione scientifica e matura in un ambiente dove spira la brezza della contestazione sessantottina. Si scopre pacifista e simpatizzante per il movimento antinucleare. Conduce una vita errante, vagamente bohemienne e anticonvenzionale, diviso tra scienza l’amore per la musica e bizzarri strumenti musicali.
Sono solo alcuni dei ricordi che Lanier restituisce nel suo memoir pubblicato da il Saggiatore con il titolo L’alba del nuovo tutto (pp. 430, euro 25, traduzione di Alessandro Vezzoli). Libro impegnativo, che spazia appunto dall’autobiografia alla riflessione su come è cambiata la netculture, un’attitudine controculturale che ha visto Lanier protagonista per quanto riguarda l’iniziale infatuazione per le concezioni che vedevano il cyberspazio una frontiera di libertà e opportunità di liberazione, per poi mestamente e altrettanto convintamente ripiegare su un asettico pragmatismo dove la Rete è ridotta a promettente settore economico.

Memoir dunque, dove le atmosfere campestri da «attimo fuggente» e Henry David Thoreau si alternano alle ansie per la scoperta della sessualità, la paura della grande città, l’idiosincrasia per il fumo delle sigarette che impediscono al giovane di frequentare locali musicali dove vorrebbe suonare, dato che la sua aspirazione è fare il musicista. La parte del leone e più fascinosa sta tuttavia nella descrizione della Silicon Valley alla fine degli anni Ottanta. Un luogo ancora in fase di transizione da zona agricola a nascente insediamento high-tech. Ci sono, nelle pagine sulla scoperta della Valle del Silicio, tutti gli ingredienti per rendere il libro di Lanier una testimonianza del tempo che è stato e quello che non potrà mai diventare.

La forte presenza di un’inclinazione hacker, la libera circolazione delle idee, la condivisione di progetti, l’indifferenza verso ogni dimensione economica da parte di giovani promettenti e talentuosi virtuosi della programmazione software; le infinite discussioni sulle differenze di genere e sul ruolo indispensabile delle donne nella libera circolazione delle idee restituiscono un mondo che nel giro di dieci anni cambia pelle. Arrivano i capitalisti di ventura, le imprese cominciano a vedere in quel milieu di innovazione controculturale una sorta di atelier dove attingere e fare affari.

LANIER SI IMPEGNA in un settore promettente – le realtà virtuali – che attira investimenti, ma che vedrà i risultati dei progetti e delle «scoperte» utilizzati da settori impensati inizialmente – i videogiochi, le applicazioni mediche, l’intelligenza artificiale – e con la tasformazione di «ricercatori» in imprenditori. Quella che Lanier racconta può essere vista come la colonizzazione capitalista di un mondo in formazione. La mutazione colpisce tutti, anche l’autore, che diviene anch’egli un imprenditore di successo. Fa soldi, ottiene lavori, consulenze danarose, arriva a lavorare con il sistema, compresa la Micosoft, l’antico simbolo della impresa rapace di innovazione e talento. La Rete ha dunque smesso di essere un mondo a parte. È diventata l’infrastruttura tecnologica di un capitalismo che produce disoccupazione, alimenta disuguaglianze sociali, accentua le forme di controllo sociale sui comportamenti individuali da parte di imprese e stati nazionali.

Lanier guarda tutto ciò con preoccupazione. Invita alla cautela e, moderatamente, a sottrarsi alla trasformazione da umani a «gadget». Sostiene la necessità di reinvestire una parte della ricchezza estorta dalle imprese per attenuare la povertà crescente di settori della popolazione statunitense, perché teme una sorta di genocidio della classe media americana da parte del libero mercato. La sua conversione compassionevole assume la postura del j’accuse moralistico contro un mondo, quello high-tech, dove tutto è ridotto alla logica computazionale degli algoritmi. L’unico rifugio che Lanier individua in un mondo segnato da una tendenza ineludibile di crescente infelicità sono le realtà virtuali, perché consentono di immaginare altri mondi, dove la fantasia di un altrove non ha il risvolto solipsistico che molti credono, bensì la concretezza della condivisione e dell’incontro con l’altro. Illusione, forse, ma tuttavia l’autore ne è fortemente convinto. Le realtà virtuali così descritte sono una realtà tutta da produrre, costruire e scoprire, viene da dire. Ma su questo il libro si apre su dimensioni inesplorate; o inquietanti e poco gestite dall’autore. È la realtà delle macchine predittive, delle machine learning, di ciò che viene chiamato il capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza, cioè la radicalizzazione di quella realtà che Lanier vorrebbe in qualche misura contenere.
Ma Lanier è ormai un uomo di affari segnato da evidente fatalismo. Così stigmatizza ogni proposito critico verso il capitalismo perché altero verso il principio del business is usual. L’unica possibilità di salvezza è quindi una attitudine compassionevole unita a comportamenti individuali virtuosi. Delle discussioni sulla libera circolazione del sapere, sulla critica al potere delle imprese sulla vita di uomini e donne se ne sono perse le tracce. Cose di gioventù.

EPPURE LA SUA è una testimonianza che merita di essere lette. E meditata. Restituisce quella piccola, grande apocalisse della netculture. Parla di un conflitto che si è consumato, con vincitori e vinti. Di logiche messe in campo per catturare innovazione e ridurre al silenzio il lavoro vivo. Di precarietà elevata a sistema, di un capitale che si presenta come totalità, ma che ha bisogno di differenze, di varietà, di una certa libertà di ricerca per crescere e innovarsi.
Su questo Lanier ha poco da dire se non ipotizzare irrealistiche possibilità di disconnettersi dalla Rete alla ricerca di una autenticità che risiede solo nella fantasia di chi pensa appunto alle realtà virtuali come il mondo dell’altrove invece che la concreta e materialistica produzione sociale di manufatti digitali. Ma non c’è un teorico, né un attivista in queste pagine, solo un signore che sostiene di essere felice, che ama la buona musica, il buon cibo e che sfoggia ancora oggi degli affascinanti dreadlocks.