Ma poeu, la vita va; fa quel che voeur; chi va, chi resta, e gh’è chi invece moeur. Così cantava Enzo in El me indiriss. Canzone che si apre con un monologo sublime di un uomo in coda al comune per un certificato di residenza, ma non ha la biro (no, qui uno che lavora al tornio sensa la biro è un pirla. Non c’ho la biro, se c’avevo la biro gliela chiedevo? Non c’ho la biro è allora? Stiamo qui tutta la vita perché non c’ho la biro).
Poi via a ricordare l’infanzia, gli amici che volevano tirare per aria tutto il mondo e poi facevano la colletta per comperare quattro Alfa e due Esportazione, che allora le sigarette si vendevano anche sciolte. Ma poi la vita va, fa quel che vuole, chi va, chi resta e c’è chi invece muore… Un anno è passato da quando Jannacci se n’è andato, noi siamo rimasti, ma abbiamo un gran vuoto e un gran magone. Per fortuna siamo in tanti a essere debitori nei suoi confronti, così c’è sempre qualche occasione per parlare del dottore, per risentire qualche sua canzone, per rievocare qualche aneddoto, giusto per sentirlo ancora vicino.
Una di queste è rappresentata da Roba minima (mica tanto) di Andrea Pedrinelli (Giunti, 18 euro) che ripercorre la storia di duecento e passa canzoni cantate da Enzo, con l’aggiunta di qualche flash illuminante che aiuta a inquadrare meglio il personaggio, ma soprattutto la persona. Pedrinelli ha compulsato e citato ampiamente Gianfranco Manfredi dal volume Canzoni e ha fatto bene perché la pubblicazione di Lato Side del 1980 è introvabile.
Anche il titolo del libro è debitore, questa volta però nei confronti di Jannacci stesso e al suo El portava i scarp del tennis (Roba minima, s’intend roba de barbun), la canzone che riveste un’importanza strategica nella discografia del dottore e che viene raccontata. Tanto per cominciare è il suo primo testo in dialetto milanese e non è che ce ne fossero molti in giro, qualche Dansi e poco più. Poi il protagonista. Molti testi dialettali o po polari hanno cantato da tempo gli antieroi, malavitosi, gente travolta dal destino e destinata alla galera, Enzo si spinge oltre: il suo eroe è un barbone, un senzatetto si direbbe oggi e lo introduce scusandosi, però lo presenta come un amico che era andato a fare un bagno e sullo stradone che porta all’Idroscalo e fu colpito dall’amore.
Due occhi da buono, uno che parlava da solo, il primo ad andarsene perché è un barbone, che quando vede lei, «bianca e rossa che pareva il tricolore» (passaggio censurato in Rai, sic!), zittisce, non riesce più a dire nulla. Poi il parlato, l’uomo in macchina che chiede se conosce la strada per l’Idroscalo, lui che deraglia in un subbuglio di sensazioni e sentimenti, sale per la prima volta su un automobile, farfuglia e si fa poi lasciare lungo la strada farneticando di quel sogno d’amore. Lo troveranno sotto un mucchio di cartone. L’hanno guardato sembrava nessuno. L’hanno toccato, sembrava dormisse. «Lascia stare che è roba da barboni». E pensare che doveva essere solo un brano strumentale per il sax di Paolo Tomelleri, ma quando Enzo glielo fece sentire in modo arruffato quello rispose che sarebbe stato meglio scriverci sopra un testo. Enzo viene anche soprannominato Schizo per questa canzone, per i movimenti convulsi, lo sguardo allucinato, le frasi smozzicate.
Secondo Fabio Concato era stato suo padre Gigi il primo a chiamarlo in quel modo, sin dagli anni ’50, perché Jannacci si presentava e si metteva al pianoforte suonando in fretta e furia e in modo confuso. Ma in quel modo tutto suo, occhialoni, sguardo perso, voce impossibile, atteggiamenti singolari e personali Enzo arriva al cuore del pubblico. E non lo molla più.