Poderoso e magnifico il documentario che Amy J. Berg ha realizzato su Janis Joplin. Scomparsa quarantacinque anni fa a ventisette anni, quasi una maledizione perché a quell’età sono morti anche Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian Jones, Kurt Cobain, Amy Winehouse. Qui però l’emozione non viene dalla fine precoce, ma dalla voce di Janis Joplin, unica fantastica e straziante. Non si tratta di un film musicale in senso canonico, certo, ci sono Monterey e Woodstock, anche il Festival Express e alcune altre canzoni, ma quella che emerge prepotente è lei, Janis, la ragazzina di Port Arthur Texas, che scappa dalla realtà miserabile del Sud degli Stati uniti degli anni ’50 e primi ’60, un posto farcito di mediocrità e Ku Klux Klan. Lei istintivamente si scontra con questa logica opprimente e ossessiva, ama il blues e a scuola la chiamano «nigger» o «freak».

La sorella Laura, più giovane, racconta di come anche Janis avrebbe voluto essere carina come le ragazze sulle riviste patinate, invece era un po’ cicciottina, con la pelle rovinata e un caratteraccio difficile da sopportare, soprattutto se a comportarsi in modo anticonformista è una ragazzina. Al liceo è emarginata, neppure invitata al ballo finale. Ma il peggio viene al college, quando un manipolo di cialtroni sul giornale del campus la elegge «uomo più brutto dell’università». Colpo ferale per la sua insicurezza e la sua necessità di essere accettata. L’unica consolazione le deriva dal blues, dall’amata Odetta e dalla musica che lei ascolta e i suoi pochi amici non riescono a capire dove scovi quei dischi e scopre quasi per caso di essere anche brava nel canto.

Ecco allora la corsa all’Ovest, San Francisco, dove tutto sembra possibile, dove si pubblicano libri e poesie, dove nasce una musica mai sentita, dove circolano droghe, dove tutti sono accettati, dove la psichedelia è imperante e dove Janis non ha problemi di approvazione. E lì comincia a cantare in un gruppo che si chiama Big Brother and the Holding Company. Sconvolge regole e equilibri, prima i leader erano il bassista e il cantante, in breve lei diventa l’attrazione, il genio imprevedibile. Ma la sua storia musicale è nota, i trionfi prepotenti di Monterey, l’imbarazzo di Woodstock, i successi dei concerti di Los Angeles e di Londra, le sessioni di registrazione di capolavori rimasti nell’olimpo musicale, nel cuore e nelle orecchie di tutti quelli che hanno avuto modo di ascoltarla. Basti ripensare alla sua rilettura di Summertime a Me & Bobby McGee, che l’autore attore Kris Kristofferson sentirà solo dopo la morte di Janis, alla magia che riusciva a infondere al microfono perché raggiungesse tutti, perché tutti potessero essere in sintonia emotiva con lei.

Qui però emerge dell’altro, la sorella e il fratello Michael hanno messo a disposizione i materiali di famiglia, lettere ai genitori, diari, considerazioni (e la voce che legge nella versione italiana è quella di Gianna Nannini). Così il quadro assume contorni molto più definiti, emerge la donna Janis, dal talento sublime, dall’intelligenza straordinaria e soprattutto dotata di una sensibilità debordante e insostenibile, che la rende fragile, bisognosa di affetto e amore quasi a livello patologico. E a questo proposito il consiglio è quello di rimanere a vedere il film sino ai titoli di coda perché lì ci sarà John Lennon a dire qualcosa di importante e definitivo su fama, successo, sensibilità e fragilità. Janis è stata la prima rockstar donna, il suo è stato un lampo in termini di tempo (solo quattro LP), ma capace di segnare in modo indelebile la storia della musica. Janis non solo un film è un monumento alla vitalità irrefrenabile di Janis Joplin, al suo smisurato talento e un inno a quella risata singolare che parte da profondità abissali per uscire prepotente e contagiosa come un blues.

Amy Berg offre moltissime testimonianze di musicisti, amanti, produttori, giornalisti ma alla fine è sempre lei Janis, la ragazza del ’43 che esce e prende la scena, compresa quella piccola rivincita legata al ritorno a Port Arthur in occasione del decennale della maturità: gli altri zavorrati dal conformismo, lei invece a volare alto. Amy Berg non tace nulla, compresa la pesante dipendenza dall’eroina e la voglia di uscirne. Non tanto per dire, ce l’aveva quasi fatta, da mesi non si faceva (lo ha confermato l’autopsia), poi quel maledetto 4 ottobre 1970, quando dopo il concerto tutti se ne sono andati e lei va in albergo, sola. Spera di rimettersi insieme a David, il ragazzo che l’aveva incontrata in Brasile quando cercava di disintossicarsi da alcol e eroina, e l’aveva amata, all’inizio senza neppure sapere chi fosse, poi però quando lei aveva ricominciato lui se n’era andato in giro per il mondo. Lei gli ha scritto, speranzosa, ma quella sera è sola, triste e disperata. E ci ricasca. Il telegramma con la disponibile risposta di David rimane lì, alla reception dell’albergo. Lei non lo vide mai.