C’è chi immagina una meta di viaggio a lungo sognata senza mai subire delusioni nell’incontro con il luogo reale e chi, invece – in altri tempi –, batteva la polvere delle strade con aspettative oscillanti. A Proust bastava pronunciare il nome di un «paese» (Balbec, Venezia…) per far rivivere il «destino» che quel nome «designava», riscattarlo dall’astrazione spazio-temporale e assorbirlo nel ritmo della propria vita. Henry James fu un altro tipo di viaggiatore: più turista onnivoro con Baedeker e, soprattutto ai suoi inizi, un reporter professionista del viaggio, assoldato al mercato delle riviste. Non avrebbe avuto bisogno di trarre guadagno dal quel mestiere (cinquanta dollari a pezzo), perché ricco di famiglia e abituato alle traversate verso l’Europa sin dall’infanzia, tanto che la sua educazione coincise, in concreto, con il viaggiare. Ma raggiunta una certa età – poco prima dei trent’anni, e prima di aver scritto una sola riga seria da romanziere –, a differenza del fratello William il quale, con maggiore soddisfazione dei genitori, si dedicava a studi più impegnativi, egli decise di rendersi indipendente proprio con la scrittura di viaggio. Di questi primi reportage è composto il volume In viaggio (traduzione di Maurizio Bartocci, prefazione di Hendrick Hertzberg, introduzione di Michael Anesko, Bompiani «Grandi Tascabili», pp. 378, euro 15,00), una raccolta degli scritti del primo decennio dell’attività letteraria di James, uscita negli Stati Uniti nel 2016 in occasione del centenario della sua morte.
A Roma solo nel 1869
Se, con l’eccezione di Roma che – strano caso – vedrà solo nel 1869 («Finalmente – per la prima volta – sono vivo!»), l’Europa era per lui già una virtuale pagina scritta, il suo paese natale, al di là di Boston e New York, restava tutto da scoprire. Tanto più accattivanti risultano, pertanto, i primi cinque dei ventuno pezzi apparsi su «The Nation» tra il 1870 e il 1879, perché dedicati a mete vacanziere allora di grido negli Stati Uniti orientali e alle variegate comunità che le frequentavano, dalle quali, in seguito, James potrà raccogliere i tratti socio-culturali dei suoi futuri americani in Europa. Nel giro di pochi mesi farà conoscere ai suoi lettori: Saratoga, una snobistica stazione termale, «tristemente diversa» dalle sue previsioni, per via di una «compagnia spaventosamente mista» (cioè: l’arrivo dei parvenu); il Lago George, un reliquiario di storia patriottica, di cui preferisce non parlare (chissà perché!), per paragonarlo invece, con non poca stravaganza, al Lago di Como, mentre su quelle rive, che sapevano ancora di vita indiana, plaude alla notizia dell’assalto prussiano del 1870; Newport, l’amata città balneare nel Rhode Island, frequentata da famiglie della sua stirpe ‘aristocratica’, quindi di altra stoffa rispetto ai nuovi villeggianti di Saratoga; e infine le già consumistiche cascate del Niagara che, in un superbo esercizio di scrittura ricalcata sui vortici «di smeraldo e cristallo, marmo e argento» riversantisi in «autentici vomitoria», egli definisce il «più bell’oggetto del mondo». Con qualche sfumatura alla Turner, per «eleganza e grazia» (e drammaticità), il dirupo architettonicamente spumoso del Niagara supera, a suo avviso, la maestosità Michelangelo! Nonostante le iperboli, il pezzo è da grande antologia.
Il discorso avviato su questi luoghi d’America, anche se guardati un po’ con l’occhio dell’europeo, resta seminale e non andrà perduto, perché sarà riutilizzato in altro modo nei romanzi «transatlantici» sui suoi americani ricchi, dei quali James qui studia le tipologie (delle giovani donne, in particolare, le Daisy Miller o Isabel Archer, e dei vecchi e nuovi ricchi), un repertorio di comportamenti, psicologie, usi e costumi nazionali, da cui – egli dice – farà maturare il suo «grande romanzo americano». La presentazione minuta, e spesso ironica, di società più o meno esclusive e di imponenti scenari naturali porterebbe ad affermare che il vero «innocente» all’estero delle prime pagine di In viaggio sia proprio il turista in casa propria. E James si scopre turista spesso impreparato, deluso dall’emergere di una «volgarità» danarosa o bassamente commerciale (i negozietti di curiosità e le insegne pubblicitarie per gli sposini del Niagara), sempre ingabbiato in un antifrastico confronto con l’Europa, o millantatore (alberghi, loggiati e giardini sono i «più grandi del mondo»), e detrattore: in America c’è tanto stridente connubio di «civiltà» equivoca e natura primitiva. Ma soprattutto, con l’eccezione di Newport, nella scoperta di una zona ristretta della sua terra, egli fa un po’ di fatica a far coincidere la magia del suono di un «nome di paese» con la realtà, perché, a differenza dell’Europa, quella realtà non l’ha mai sognata e la conosce poco. Così annota in esergo alla parte americana: «Ci si ritrova a pensare a un posto sconosciuto, mai visto, in una maniera anziché in un’altra. Nella nostra mente esso assume una determinata forma, un determinato colore, che sovente si rivelano completamente discordi dalla realtà».
La magia proustiana del nome verrà anche per lui quando nel 1872 si imbarcherà per un ennesimo pellegrinaggio «sentimentale» in Europa, dove deciderà di fermarsi per sempre (tornerà in America trent’anni dopo per trovarla molto cambiata: in peggio). Questa volta fa da chaperon alla sorella Alice e quindi ripercorre – fatta eccezione per l’Italia – stazioni già attraversate in Inghilterra, Francia e Germania, senza però aver perso la debolezza per l’incantamento davanti alla veduta da cartolina. Ciò accade per esempio a Lichfield, vicino Birmingham, nota per la sua cattedrale, dove si lascia andare a un commento che è una piccola lezione sull’arte del viaggio: «Passeggiare alla ricerca di un oggetto che si è più o meno teneramente sognato, trovare la strada, avvicinarvisi di soppiatto, vederlo finalmente, che sia una chiesa o un castello, con la sommità delle torri che sbirciano sopra gli olmi e i faggi, proseguire lesti, ed emergere, e fermarsi, e tirare il primo lungo respiro, che è il compromesso tra molte sensazioni – questo è un piacere che rimane al turista anche dopo che l’ampio bagliore di una fotografia ha dissipato molti dei dolci misteri del viaggio».
«Ore inglesi», «Ore italiane»
Con l’aggiunta di altri, i pezzi europei qui raccolti saranno riuniti in Ore inglesi, Breve viaggio in Francia e Ore italiane, il che dimostra quanto James tenesse in conto questi suoi racconti di colta divulgazione, di cui, non di rado, si servirà come sfondo scenico per i suoi romanzi. Ma non solo. In particolare nel suo tour dell’Italia appena nata dall’Unità si ha la sensazione che egli voglia scrivere per i posteri, più che per il lettore medio americano, e eternare sulla pagina la sinopia di un patrimonio che gli sembrava in drastica sparizione. A Roma trova turisti, sudiciume e declino; a Firenze il «sapore fiorentino» lo sente «morto e sepolto», le vecchie stradine del granducato gli si aprono «come piccoli corridoi che escono dal passato», dove l’incontro con una figurina solitaria lo intimorisce, tanto gli pare che assomigli «a un fantasma, un messaggero dall’oltretomba»; nella sonnolenta Ravenna percepisce una «immobilità sepolcrale»; e a Venezia lamenta il malinconico marcire delle opere di Tintoretto nella Scuola di San Rocco: «Un’incurabile oscurità si sta rapidamente depositando su di loro, e ti guardano accigliate attraverso il fosco splendore delle loro grandi sale come desolati e crepuscolari fantasmi di dipinti. Per i figli dei nostri figli Tintoretto non sarà altro che un nome; e se essi perderanno la tragica bellezza, già così offuscata e macchiata, del grande La salita al Calvario vivranno e moriranno senza conoscere la straordinaria eloquenza dell’arte». Un’eloquenza che lui invece, in extremis, cattura con la sua consueta eleganza di stile, lasciandoci – con i fantasmi – impareggiabili documenti visivi.