Ha colto nel segno, il critico dell’Independent Mark Beaumont, coniando il termine introvertronica: un neologismo utile, che attraverso l’esempio di James Blake seganala la diffusa necessità di riformulare il rapporto tra macchina e umano, non solo nell’ambito della creazione artistica. Un anno dopo aver flirtato con l’AI per Wind Down (2022), componendo musica il cui scopo dichiarato era conciliare il sonno, il trentacinquenne di Enfield suona la sveglia con Playing Robots Into Heaven (Republic/Polydor), album appena arrivato sulle piattaforme e disponibile anche in versione fisica, rileggendo il sound delle proprie origini alla luce della maturità. Un progetto che a dispetto delle apparenze si rivela essenzialmente artigianale, club-friendly ma introspettivo: quando l’artificiale si professa intelligente, l’artista si diverte a giocare ai robot in paradiso.

E LO FA senza pretesa di infondere l’anima alla tecnologia, affidandole al contrario il compito di riarticolare frammenti delle tante personalità incarnate nel corso della sua carriera. C’è il padre del post-dubstep, il cantastorie indie, l’enfant-prodige del contemporary R&B, il produttore hip-hop: per chi ha incrociato le sue strade con quelle di Kendrick Lamar, Brian Eno, Kanye West, Jay-Z e Beyoncé, l’effetto Zelig è il minimo che ci si possa attendere. Nell’ultimo album questa scissione interna traccia il diametro tra i due estremi Big Hammer e If You Can Hear Me. Il primo, messo in moto da un sample dei Ragga Twins, è il manifesto della nuova vena danzereccia di Blake e sintetizza il lato più radioso dell’opera; il secondo, lettera aperta di un figlio a suo padre — il musicista e cantante James Litherland — ne è il contraltare confessionale: «Took your lead / Followed your dream / And I woke up from it even more tired». Tra questi due antipodi l’artista continua a mutare sembianze da una traccia all’altra, dalla spettrale I Want You To Know ai flauti di Pan digitali di Night Sky: per ognuna la propria voce, composta di tasselli tagliati e modificati, a mo’ di loop o di bordone, incastrati tra synth, pad e batterie quasi techno come in Tell Me.Manipolando i suoni, rilegge nel disco il sound delle proprie origini

È SOLO con Fire The Editor che ci accorgiamo di essere ormai lontani dal dancefloor, al cospetto del Blake più sommesso, pronto a chiudere il discorso con la title track finale: un timbro organistico per un’atmosfera virtualmente ecclesiastica, a fare il paio con i cori angelici di Loading.
Playing Robots Into Heaven è tutto questo, un bricolage elettronico che riassembla idee abbozzate in tempi e spazi diversi sul taccuino del synth modulare che accompagna Blake in tour. Ma muovendo dalla figura allo sfondo, dietro l’interfaccia androide riconosciamo la cifra stilistica dell’artista: la tensione tra melodia, basso e batteria che già dava corpo agli EP The Bells Sketch, CMYK e Klavierwerke; l’autoriflessione che permeava il suo «lockdown album» Friends That Break Your Heart; la gestione tecnologica della voce e, in definitiva, la nuova natura introvertronica di una musica al confine tra macchina e umano, dance e songwriting.