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Jalowicz Simon, non mi avete annientata

Jalowicz Simon, non mi avete annientataL'autrice delle memorie di "Clandestina", Marie Jalowicz Simon

Shoah I ricordi di Marie Jalowicz Simon, ebrea berlinese che per salvarsi scelse di vivere «clandestina»: da Einaudi un documento che per lucidità affianca quello di Victor Klemperer

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 15 marzo 2015

Essere clandestini in Germania negli anni di guerra rappresentò, per un’esigua minoranza che ancora non siamo in grado di quantificare, la sola via alla salvezza. La legge (sì, la legge!) aveva privato i cittadini di origine ebraica dei diritti di cittadinanza, trasformandoli in pura forza lavoro e destinandoli o alle fabbriche (in città) o ai lager (all’est). Nelle fabbriche essi erano trattati, né più né meno, come schiavi. Nei lager come mezzi produttivi a tempo: c’erano infatti lager dove si veniva sfruttati fino alla consumazione e alla morte (Arbeitslager) e lager dove si veniva immediatamente uccisi (Verninchtungslager).
Clandestino era stato, ad esempio, Victor Klemperer a Lipsia. Docente di letteratura tedesca, privato della cattedra in quanto ebreo, Klemperer si sottrasse alla deportazione vivendo in clandestinità. E intanto registrava su foglietti di volta in volta abbandonati nei vari nascondigli e poi fortunosamente ritrovati quelle mutazioni linguistiche appena percettibili dalle quali si poteva però evincere la spaventosa corruzione delle menti e dei cuori allora in atto. Lasciò così un documento che è un implacabile capo d’imputazione: L.T.I., Lingua Tertii Imperi, la lingua che veniva parlata comunemente all’epoca del Terzo Reich e che ci dice come non ci fosse aberrazione che non potesse diventare in bocca a ogni parlante una colpa a tutti gli effetti.

Clandestina fu, a Berlino, Marie Jalowicz Simon. Di lei, che dopo la guerra volle testimoniare in pubbliche conferenze alla Humboldt-Universität, dove fu docente di filosofia greca, e alla Comunità Ebraica, poco avremmo saputo, non fosse per merito del figlio, lo storico Hermann Simon, che negli ultimi mesi di vita della madre registrò i suoi ricordi, pubblicandoli l’anno scorso in una trascrizione che vede ora la luce in italiano da Einaudi. Documento, questo, che per lucidità e incisività affianca quello ormai classico di Klemperer (Clandestina Una giovane donna sopravvissuta a Berlino 1940-1945, «Supercoralli», pp. 337, euro 20,00).

Nel 1941, alla morte del padre, un avvocato della borghesia colta, Marie si ritrova sola e del tutto priva di protezione. Chi o che cosa, del resto, potrebbe proteggerla dal suo «destino», cui effettivamente va incontro e che per lei, ebrea, prevede il lavoro coatto in uno stabilimento per la produzione di materiale bellico? Marie non tarda a rendersi conto che quella non è che l’anticamera dell’inferno. Da lì infatti non si esce che per essere deportati nella stazione finale e senza ritorno: i campi, campi di lavoro e campi di annientamento. Sottraendosi miracolosamente o meglio «per caso» alla cattura da parte della Gestapo, decide di entrare in clandestinità. Ossia di nascondersi, scomparire. Unter getaucht, sommersa, affondata, come chi scivola fuori dalle maglie della rete sociale: questo sarà d’ora in poi il suo stato, il suo modo di essere.
Irrompono così nella sua vita due categorie alquanto equivoche se non contraddittorie: destino e caso. Che cosa significa destino? Che cosa significa essere destinati alla schiavitù? Perché mai avrebbe carattere destinale la persecuzione di qualcuno nei confronti di qualcun altro? E che cosa significa caso? È solo il caso a farci liberi? Sono queste le domande che si fa la clandestina. E continuerà a farsele quando, scampata allo sterminio, appena finita la guerra si iscriverà alla facoltà di filosofia e inutilmente si aspetterà una risposta dai suoi professori. «Assistevo alle lezioni di filosofia e pensavo: per la miseria, che idioti; se non siete in grado di dirmi cos’è il caso e cos’è il destino potete andare a nascondervi, voi con tutte le vostre fesserie».

Intanto però bisogna pensare a sopravvivere: è questo l’imperativo categorico di chi vive in clandestinità. Un imperativo che sembrerebbe non aver nulla a che fare con l’etica, dal momento che la sopravvivenza si situa al di qua del bene e del male. E invece è proprio la sottile linea di demarcazione fra bene e male quella lungo la quale ci si trova a muoversi, è l’ago di una bussola che oscilla incessantemente fra bene e male a far da guida, è il bisogno di sapere dove sia il bene e dove il male a scandire ogni passo verso la salvezza o verso la catastrofe. Le domande allora non saranno più: che cosa sia destino o che cosa sia caso, bensì: mi posso o non mi posso fidare di quella persona, perché mai quella persona dovrebbe mettere a repentaglio la sua vita affinché la mia sia risparmiata, fino a che punto le persone che mi circondano sono capaci di gesti improbabili e smisurati al punto da superare sia verso l’alto che verso il basso la comune misura umana? Salvo scoprire ogni volta che la generosità più commovente viene da parte di chi non ti aspetteresti. O che la bestialità più ottusa è pronta a mostrarsi nel vicino di casa o nel passante.

Ma le domande sono anche altre. Per esempio: sapevano o non sapevano i berlinesi, tutti, l’uomo comune e il funzionario, la madre di famiglia e il piccolo borghese che ha votato nazista, ciò che stava accadendo? All’inizio sembra che nessuno sappia niente. Alla fine, che tutti sappiano tutto. Quando all’inizio della guerra compaiono in strada le prime stelle gialle cucite sui cappotti o sulle giacche, accade che i poliziotti, ai quali i portatori di tali contrassegni si rivolgono per informazioni su come raggiungere un certo luogo dato che non possono usare mezzi pubblici, rispondano brontolando che quelli che fanno le leggi devono essere andati fuori di testa… Ma quando, alla fine della guerra, da un carcere si levano le urla dei torturati, succede che nello stesso momento e come per mutua rassegnazione tutte le finestre dei caseggiati d’intorno si chiudano ad allontanare dalle orecchie uno strazio altrimenti insopportabile.

Qualcosa evidentemente si è imposto con la forza della necessità. Qualcosa che ha a che fare con la coscienza di ogni singolo abitante della città. Ma che cosa? È come se un morbo non ancora mai visto avesse infettato il corpo sociale disgregandolo e mettendo gli uni contro gli altri e tutti contro tutti, tanto che la sola logica vigente non è neppure più quella amico-nemico ma quella vittima-carnefice. Vittima o carnefice: o essere vittima o essere carnefice. Nell’epoca della Nazi-Pest, la peste nazista, sembra non venir data in sorte altra possibilità, altro ruolo. Ancora una volta: un destino agganciato al caso, o il caso che si fa luce nel cuore buio del destino.

Ed è proprio sul caso – sul caso come misterioso fiore del destino – che Marie Jalowicz si interroga in un passo con cui il figlio ha voluto oncludere le sue memorie. Ecco le sue parole, che hanno il valore di un testamento: «Il desiderio legittimo dello scienziato o del letterato mosso dalla seria intenzione di accertare la verità dei fatti induce a trascurare quello che a mio avviso è l’elemento cruciale, vale a dire il caso. Ma che cos’è il caso? In base alla definizione di Spinoza, un asylum ignorantiae. Il ‘caso’ è una parola che ci viene in soccorso, e come tutte le parole di questo genere ci concede la possibilità di dare ingenuamente un nome a ciò che è imperscrutabile. La sopravvivenza di ciascun clandestino si fonda su una serie di casualità, le quali non di rado hanno dell’incredibile e del miracoloso. Rifiuto di interpretare tali casualità come fatalità… Dobbiamo rassegnarci al fatto di non poter risolvere l’enigma, dobbiamo accontentarci, riconoscere la nostra ignoranza e concederle un asylum…».

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