Chissà se, oggi, avrebbe ancora i lunghi capelli che lo facevano assomigliare a un guerriero navajo. Oggi, se così fosse, all’alba del primo dicembre 2021, avrebbe compiuto settant’anni. Un esplosivo cocktail di sfortuna, scelte sbagliate, sliding doors della vita se l’è portato via, invece, a trentasei. Lui era Jaco Pastorius. Professione: il più grande bassista elettrico del mondo. L’uomo che per il basso elettrico ha fatto quello che Jimi Hendrix ha indicato per i chitarristi: la via dell’immaginazione dell’impossibile, perseguita inseguendo e forzando i limiti che si hanno quando si imbraccia uno strumento relativamente «giovane» tutto da scoprire e impostare. Quando lo prese tra le mani Jaco, il basso elettrico aveva pochi decenni di vita. Era nato per le medesime motivazioni per le quali era nata la cugina di primo grado chitarra elettrica. Riuscire a farsi ascoltare all’interno di un’orchestra a larghi ranghi, ma perlopiù per il rhythm and blues dei piccoli gruppi. Per riuscire a farsi sentire in un club affollato da gente festaiola, bevitrice, e potenzialmente disinteressata a quanto succedeva sul palco. Il signor Orville Gibson, gran liutaio e padre di una delle più celebri chitarre, aveva provato ad applicare un pick up, alla fine degli anni Trenta, all’ingombrante chitarra-basso Regal, e lì ne aveva intuito le potenzialità. Il punto di snodo centrale nella storia del basso elettrico però arrivò assai più tardi, quando nel ‘48 Leo Fender, diretto concorrente di Gibson, concepì e poi realizzò in serie la prima chitarra elettrica solid body, strumento precursore del mobile ed ergonomico Precision Bass elettrico, commercializzato nel ‘52: trentaquattro pollici di lunghezza del manico, a mezza strada dunque tra una chitarra Telecaster e un contrabbasso. Ci vollero altri nove anni per arrivare al Fender Jazz Bass. A quel punto le potenzialità del basso elettrico c’erano tutte, e i bassisti s’erano incuriositi per quello strumento potente e duttile, lirico e assai più comodo da usare del vecchio grande legno: mancava però ancora una sintassi espressiva evoluta del nuovo strumento.

L’INFANZIA
Qualche rudimento l’aveva impostato Monk Montgomery, il fratello del chitarrista Wes. A quel punto arrivò Jaco Pastorius. Che, al secolo, si chiamava John Francis Anthony. Nato a Norristown, Pennsylvania, il primo giorno di dicembre del 1951, figlio di un batterista jazz che aveva sangue tedesco, e di una madre di ascendenza finnica. Musica respirata fin dall’infanzia, dunque: all’inizio da batterista e da chitarrista. C’è già il disegno del modo di suonare complesso da bassista elettrico futuro e rivoluzionario di Jaco: padronanza ritmica impressionante, urgente, accostata a struggenti ondate di lirismo cantabile. Il soprannome, «Jaco», se lo sceglie per la vita quando la famiglia si trasferisce in Florida, e un amico spagnolo equivoca in una lettera sul nome di Jocko Conlan, arbitro di baseball. Dopo un incidente sportivo, Jaco deve lasciare la batteria. Quando ha quindici anni, nel ’66, si compra un basso elettrico con i soldi messi da parte vendendo giornali per le strade, se ne innamora e comincia a studiare ossessivamente. Il suo secondo basso è un fretless del ’62, come quello usato da Who e Led Zeppelin: leggenda vuole che Jaco abbia tolto i tasti e riempito di mastice le scanalature, ma non è vero. Vero è invece che Jaco ricopre il manico di dieci strati di vernice, perché usa micidiali corde metalliche ruvide e pesanti che aggrediscono qualsiasi legno. Jaco è a caccia di tecnica: da un bassista locale impara la tecnica del muting, come silenziare una corda producendo un suono non intonato durante un passaggio molto veloce come mero e incalzante rinforzo ritmico, da un altro apprende come suonare gli armonici artificiali con l’amplificatore settato su alti volumi. Diventeranno elementi costitutivi del suo stile.

NAVI DA CROCIERA
Intanto Jaco comincia a mantenersi con la musica: gruppo soul e funk, anche sulle navi da crociera, palestra ritmica, per un bassista, di importanza capitale. Nel ’74 Pastorius conosce Paul Bley, che se lo porta a New York e lo fa suonare per un mese in un club assieme a un altro giovane di belle speranze, il chitarrista Pat Metheny, e al batterista Bruce Ditmas. Incide anche un buon disco, ma che passa inosservato. Non passerà a inosservato invece Bright Size Life del ’76, a nome di Pat Metheny, inizio di carriera folgorante, tutt’ora citato nelle uscite concertistiche del gioviale chitarrista. L’anno prima Jaco aveva incontrato a Miami Joe Zawinul, pianista anche interessato alle nuove tastiere elettroniche di origine austriaca che, dopo brillanti collaborazioni hard bop, aveva, nel solco davisiano, messo su con Wayne Shorter un dirompente gruppo elettrico, i Weather Report. All’inizio porte serrate per Jaco, che s’è presentato come «il più grande bassista elettrico al mondo», poi, quando il titolare Alfonso Johnson se ne va subentra lui, e l’equilibrio alchemico del gruppo cambia. Dichiarò Zawinul: «C’era una specie di magia in lui, la stessa che intuivi quando ascoltavi e vedevi Jimi Hendrix. Cominciammo a fare il tutto esaurito in ogni posto dove ci chiamavano».
Jaco comincia anche a scrivere pezzi importanti per i Weather Report, uno, Three Views of a Secret è considerato dagli altri del «bollettino del tempo» un capolavoro di equilibrio formale, ed è vero. Sono anni impetuosi e a rotta di collo: i Weather Report hanno un seguito da rock band di successo, Jaco in concerto ha sempre un suo momento di «solo» totale in cui gioca a raddoppiare e triplicare il suono, fluido e selvaggio, utilizzando fuzz, delay, loop ritmici squassanti. Il suo stile è ormai messo a punto compiutamente, e diventerà un modello (ben difficile da imitare) per tutti i bassisti elettrici: la nervatura dei ritmi afrocubani, il funk e il rhythm and blues degli inizi convogliati su flussi velocissimi di sedicesimi sincopati. E poi note fantasma nascoste in velocità estrema in mezzo alle note reali, note stoppate ad effetto, armonici naturali e armonici artificiali (ad esempio nel celeberrimo Birdland), giochi di destrezza sul pizzicato. Sembra una forza della natura quando suona, Jaco, ma, ancora una volta, al di là della leggenda da «punk jazzman» contano invece l’esercizio, la disciplina del risultato che fa apparire tutto spontaneo e selvaggio. Jaco però dal ’77 ha cominciato a bere smodatamente e a fare uso di droghe, il suo matrimonio è finito, lui comincia a mostrare evidenti segni di fragilità e squilibrio. Weather Report è una macchina da suono esigente, e lui spesso è fuori fase: rimedia con la professionalità pregressa, la stessa che gli permette, anche, di suonare assieme all’amico Pat Metheny nei folgoranti e poeticissimi dischi della «svolta elettrica» di Joni Mitchell. Uno su tutti, lo struggente Mingus.

L’ULTIMO GIRO
Nell’82 Pastorius non è più la colonna ritmica dei Weather Report, se ne va e il suo immenso posto vuoto viene rilevato da Victor Bailey. Riesce a mettere assieme un’orchestra, la Word Of Mouth Big Band: nonostante tutto è un successo, ma la sua salute, mentale e fisica, va deteriorandosi. S’è anche risposato e gli sono nati due gemelli, ma Jaco è spesso poco lucido. Finisce sfrattato di casa, smette di suonare. Nell’85 riesce a realizzare un video didattico importante, Modern Electric Bass, ma poi finisce nel reparto di psichiatria del Bellevue Hospital a Fort Lauderdale. Si riprende, va in tour. La sera dell’11 settembre, ubriaco, a Fort Lauderdale assiste a un concerto del suo amico Carlos Santana. Lo buttano fuori, lui cerca di entrare in un altro bar, il Midnight Bottle Club. È evidentemente alterato, scoppia un alterco con l’addetto alla sicurezza esperto di arti marziali. Jaco crolla a terra, è in coma cerebrale. Il 21 settembre i familiari chiedono di staccare le macchine che lo tenevano in vita in ospedale. Smettono di pulsare le corde di Jaco Pastorius, il più grande bassista elettrico del mondo.