Tradotto in Italia dal 1925 in poi più volte, Il tallone di ferro di Jack London (1908) è ora riproposto da Mondadori (pp. 280, € 13) in un’ottima versione di Sara Sullam che dà particolare risalto alla sua stratificazione narrativa. Per troppo tempo, difatti, il romanzo ha circolato (non solo nel nostro paese) privo della Prefazione di Anthony Meredith, il fittizio curatore del testo di Avis, voce femminile cui spetta testimoniare l’eroica lotta per il socialismo condotta a fianco del rivoluzionario d’acciaio (come si evince già dal cognome) Ernest Everhard, un personaggio assurto a modello per generazioni di militanti comunisti. In un futuro non distante dai tempi di London, il capitalismo ha imboccato una via totalitaria e Avis ne narra gli orrori e i tentativi di opporvisi. Anche lei, come Ernest, soccomberà ai Mercenari, ma il suo manoscritto ricorda a chi (come Meredith) ha la fortuna di vivere nell’anno 419 di Fratellanza dell’Uomo, quell’epoca buia in cui la società americana era schiacciata dalla dittatura dell’Oligarchia.

In questo romanzo distopico a tre voci, come ben evidenzia Cinzia Scarpino nella densa postfazione, «la prosa piena di vuoti e di incertezze di Avis» filtra e corregge «la retorica tonante di Ernest», così come la prefazione e le note di Meredith correggono il punto di vista di Avis. Il romanzo riflette dunque non solo «l’ambiguità poetica del sogno rivoluzionario di Jack London» ma si rivela anche una macchina narrativa tutt’altro che banale.