E’ chiaro, soprattutto a chi abbia letto i primi romanzi di J.M. Coetzee, che un qualche rovello, molte ombre e talvolta una vera e propria angoscia esistenziale, si proiettano sui personaggi da recessi della psiche di questo uomo schivo e all’occorrenza ferocemente autoironico.
Una duratura complicità con alcune domande che lo angustiano deve dunque essere all’origine del dialogo che Coetzee ha intrapreso con la psicoanalista inglese Arabella Kurtz, ora pubblicato dalla Einaudi in La buona storia Conversazioni su verità, finzione e psicoterapia (traduzione di Maria Baiocchi e Paola Splendore, pp. 144, euro 19,00), la cui premessa è che tanto i romanzieri quanto gli psicoterapeuti hanno al centro del loro interesse la natura umana, il suo sviluppo e soprattutto il medium con il quale si esprimono, ovvero la lingua.

Da prospettive molto diverse, invece, guardano al problema della verità, che costituisce il primo scoglio di questa conversazione, nonché il suo punto focale. È evidente, infatti, che in quanto romanziere, Coetzee deve coltivare con la finzione, e dunque anche con la menzogna per antonomasia, un rapporto privilegiato, indiscutibile, illimitato; mentre Arabella Kurtz, nel suo tentativo di rendere parlanti le rimozioni, ha il compito di rimettere nella giusta prospettiva le storie che ognuno si racconta su di sé.

Ma quale vantaggio si può ottenere – le obietta l’uomo Coetzee – dal confronto con la verità che ci riguarda, quando invece una alleanza terapeutica con le finzioni che ci costruiamo su di noi può, se correttamente potenziata, indurci a vivere meglio? Non è in fondo vero che tutte le autobiografie, in quanto forme che prendono le nostre proiezioni su noi stessi, portano già in sé il fallimento della nostra aspirazione alla autenticità?
Non è la libertà di inventare dal nulla quella che Coetzee rivendica, bensì una libertà ben più limitata, che somiglia alla licenza dei sogni, dove forze inconsce, e dunque a noi oscure, lavorano tuttavia con elementi della realtà che ci riguarda. La risposta dirimente arriva dalla psicoanalista Kurtz, quando dimostra come la verità interessante per un terapeuta non sia quella storica, né quella scientifica, né quella filosofica, bensì la verità emozionale, ovvero non tanto come i fatti si sono svolti quanto come sono stati vissuti e introiettati.

Sebbene Coetzee non nomini una sola volta la chance di fabbricarsi identità virtuali, incoraggiata dai social network, è chiaro che questa prassi abita il retroterra dei suoi pensieri: dichiara, infatti, di oscillare fra la preoccupazione verso una società che ammette, senza sanzionarla, la libertà di ricostruire di continuo la propria storia personale, e la simpatia che gli ispirano individui profondamente infelici, che mentono su di sé allo scopo di inventare uno sbocco più gratificante per la loro vita. Poi, spingendosi ancora oltre, il romanziere si chiede perché i nostri ricordi debbano essere immutabili, perché non possano essere suscettibili di revisione e persino di cancellazione, allo scopo di sostituirli con memorie più piacevoli.

Ancora una volta, in questione è la verità dal punto di vista degli effetti pratici che ne discendono: se qui i maestri del Coetzee pragmatista e utilitarista sembrano essere Peirce e William James, in altre circostanze la verità cui lo scrittore sudafricano allude è quella corrispondentista, che teorizza la conformità di una proposizione alla cosa nominata, e in altre ancora – senza che mai queste alternative vengano menzionate – è chiaro che il romanziere si ritrova contagiato da quella teoria epistemica delle verità per cui è il sapere a rendere vere le cose.
Tutto procede, in queste pagine, come in una conversazione impressionistica, che affida la ricerca di risposte più alle potenzialità taumaturgiche del dialogo che allo scavo nella letteratura alle spalle delle questioni affrontate: benché mossa da autentiche urgenze emotive, questa sequenza di interrogazioni non esibisce infatti granché di scientifico, a dispetto della collana – la prestigiosa Pbe – in cui la Einaudi ha ritenuto di collocare il libro, probabilmente in omaggio alla fama di Coetzee.

Ma le risposte più coerenti vengono, in fondo, tutte dalla psicoanalista inglese, che chiarisce come la verità soggettiva della quale ci si occupa in analisi non coincide con quella esterna: «non è un fatto – disse a suo tempo Hanna Segal – ma un processo». Sebbene si svolga all’interno della psiche, l’incontro di un analizzato con aspetti di sé prima inconsci «è analogo allo scontro con qualcosa di esterno», perché nell’impatto prendono corpo parti dell’esperienza fino a quel momento estranee alla costruzione della propria identità mentale.
Si sa che in ogni lavoro psicoanalitico è compreso anche un intervallo tra la fine di una seduta e la sua trascrizione, che serve al terapeuta per fare ordine nei materiali offerti dal paziente e mettere a fuoco il «caso». Proprio questa forma di relazione tra l’analista e l’analizzato assente sembra a Coetzee particolarmente interessante, tanto da fargli chiedere – ma è una domanda che nel libro non trova risposta – se sia mai stata studiata.
Lo è stata, in effetti, e il saggio che ne dà conto, Verità narrativa e verità storica, di Donald P. Spence (tradotto in italiano da Martinelli, nel 1987), descrive la sottomissione di tutti noi, «cercatori di significato», alla tradizione narrativa, che è fatta di un prima e di un poi, dunque condiziona l’ascolto in modo opposto a quello voluto da Freud, che raccomandava una attenzione fluttuante.

Proprio questa sudditanza al principio di narratività è ciò che rende la trascrizione dei casi clinici attenta a inseguire una qualche continuità e coerenza, più che a rispettare i vuoti, le interruzioni, i nonsense del racconto verbale del paziente. La verità narrativa cui lo psicoanalista approda può tuttavia – sostiene Spence – essere non meno significativa, anche da un punto di vista terapeutico – della verità storica. L’analogia con ciò che Coetzee ritiene augurabile quando si chiede perché non accettare la trasformazione dei ricordi, se essa va a vantaggio di una organizzazione più proficua della propria vita, è abbastanza lampante. E tuttavia, la conclusione di altri passaggi del suo dialogo con Arabella Kurtz, è che «non solo la nostra tradizione morale-religiosa, ma anche la tradizione e la forma stessa della storia, rifiutano di ammettere che il passato possa essere sepolto».

Anche i tanti intrecci romanzeschi che ruotano intorno al protagonista di un crimine giovanile, il quale riesce a farla franca, scappare, cambiare nome, inventarsi una nuova vita finché le domande di uno sconosciuto arrivano a svelare il suo segreto, mostrano quale sia la lezione: al proprio passato non si sfugge. Sebbene non dichiaratamente messa in campo, la nozione di giustizia viene comunque evocata a sostegno della credibilità dell’intreccio, perché se pure l’eroe di turno riuscisse a seppellire il suo segreto, il lettore tuttavia ne sarebbe a conoscenza e dunque la sua implicita alleanza con il personaggio ne verrebbe compromessa. Ma anche qui, insoddisfatto della piega che le apparenze danno al ragionamento, Coetzee si chiede: e se il grande segreto che la trama edipica cerca di nascondere sotto la superficie del ritorno alla giustizia fosse «che il passato può essere cancellato, che la giustizia non regna?»

Solo molto avanti nel libro, l’elemento autobiografico entra in campo a giustificare i demoni evocati dal processo di rimozione, quando questo si estende a un intero tessuto sociale: la doppia appartenenza di Coetzee, per nascita al Sudafrica dell’apartheid e per adozione all’Australia dello sterminio degli aborigeni, gli permette di visualizzare chiaramente la classica parabola delle società coloniali, e in definitiva di ciascuno di noi, rispetto ai propri antenati.
Se prima il gruppo che, in termini esplicitamente razziali, si pretendeva dominante andava fiero della propria opera di civilizzazione, poi il processo di drastica revisione della storia lo ha indotto a più miti consigli e anche, tuttavia, a una malriposta certezza: che approdati al regno della ragione, gli individui contemporanei siano immuni dalla possibilità di compiere quegli stessi crimini, giustificabili negli antenati, in quanto prede di una falsa coscienza e di un malinteso ruolo nella storia. Così ricostruita, la storia del revisionismo esibisce una ambivalenza che dovrebbe riflettersi nella psiche individuale e rendere impossibile una convivenza confortevole con le proprie illusioni; ma lungi dall’essere lacerate dall’insicurezza, le società coloniali nutrono la loro coscienza felice di imperativi alla deresponsabilizzazione.

Ora, domanda Coetzee a Arabella Kurtz, «se una società, fatta eccezione per pochi dissidenti, decide che non ha problemi, come può cominciare a guarire?» Il fatto è – risponde la psicoanalista – che la logica per cui è impossibile per una società immaginarsi come venuta dal nulla può benissimo funzionare all’interno della psiche. Ma mentre la convinzione che si possa imparare a «essere noi stessi» è fondativa del lavoro psicoanalitico, e costituisce dunque un credo irrinunciabile per Arabella Kurtz, desta insormontabili dubbi in Coetzee, che torna ad abdicare alle sue esigenze di verità, proclamando come suo ideale una società di individui comodamente conciliati con rappresentazioni di sé lontane dalla realtà, «mentre una grandiosa forza superiore leibiniziana bada a che i miliardi di finzioni individuali interagiscano senza conflitti, così che nessuno debba restare sveglio la notte a chiedersi se il mondo che abitiamo è reale».
Al di là delle buone intenzioni e della grande confusione in cui si agitano i suoi pensieri, in fondo Coetzee esibisce una profonda e coerente fedeltà: quella al mondo del romanzo, dove la finzione è legge. E sebbene le conclusioni del libro ribadiscano come sia il genere romanzesco sia la psicoanalisi investano sul principio per cui le cose non sono come appaiono, il dialogo potrebbe andare avanti all’infinito, a meno di non consegnarsi all’evidenza per cui la ricerca del significato e quella della verità seguono strade diverse e spesso non coincidono.