Novanta anni fa eravamo in pieno Ventennio: Carlo Carrà trionfava alla XVI Biennale d’arte di Venezia, De Chirico decorava le pareti di Léonce Rosenberg a Parigi con immagini di gladiatori e trofei, e nasceva l’Aass, l’Azienda autonoma statale della strada, che di lì a poco fu incaricata di costruire 7000 km di strade per le nuove province dell’Impero in Africa.

ERA LA MAMMA dell’Anas, l’Azienda nazionale autonoma delle strade statali, costituita subito dopo la guerra e diretta dall’ingegner Gra, che battezzò poi il suo capolavoro a sua immagine e somiglianza, il Gra (Grande raccordo anulare) di Roma.
Nell’atrio della Triennale di Milano si è aperta la mostra lampo Mi ricordo la strada (visitabile fino al 18 marzo qui e, poi, in versione ridotta su un mezzo itinerante, a partire dal 20 aprile) a cura di Emilia Giorgi e Antonio Ottomanelli per festeggiare la vecchia signora delle strade: un arcipelago di isole-tavoli ideati dallo Studio Folder di Milano (Marco Ferrari ed Elisa Pasqual), dieci tappe che attraversano un’Italia sempre più infrastrutturata nei decenni, da sud a nord e ritorno.

LA PUR LEGITTIMA aspettativa di trovarsi a guardare foto e video di svincoli, percorsi panoramici, ponti scenografici, cantieri, mappe e gallerie viene radicalmente disillusa: la strada è assente, invisibile. Non è neppure relegata sullo sfondo, è diventata un puro presupposto. I dieci eventi testimoniati da foto e documenti sono momenti di grande mobilitazione collettiva, che hanno trasformato i luoghi in spazi di aggregazione, assembramento, e che hanno richiesto il massimo sforzo di collegamento viario possibile.

SONO DOCUMENTATE vicende storiche come lo sbarco degli alleati in Sicilia, nel 1943, o la folla accorsa in sostegno di papa Ratzinger nel giorno del suo ultimo Angelus in piazza San Pietro, dopo il gran rifiuto (2013). C’è la bonifica della malaria in Sardegna, che vide migliaia di persone impegnate a cospargere l’isola di Ddt da cima a fondo, nel 1946, e c’è la ricostruzione scenografica della basilica di Siponto nel 2016 da parte di Edoardo Tresoldi, opera che ha trasformato l’area archeologica abbandonata in uno dei siti più visitati della Puglia. E poi due eventi musicali eccezionali per il loro intreccio con la storia dello stragismo italiano: il primo è l’Umbria Jazz del 1974, che ebbe un’affluenza imprevista grazie all’annullamento repentino del Santa Monica Rock Festival a Misano, considerato a rischio dopo la bomba di piazza della Loggia.

DECINE DI MIGLIAIA di giovani che si erano già mossi dirottarono su Perugia. Il secondo è il concerto di Bob Marley del 1980 a San Siro: doveva essere un segno di distensione rispetto all’atmosfera degli anni di piombo e invece coincise esattamente con la tragedia di Ustica.
Ogni isola è un palinsesto di documenti fotografici pregiati – come le immagini di Ghirri del comizio di Berlinguer a Reggio Emilia, nell’83, o quelle dell’alluvione di Firenze scattate dal giovane radical Frassinelli, che era lì per produrre le svolte più significative di Superstudio –, di scavi di archivi, dal Maxxi all’Iccd, di video e di lightbox, disposti a strati, o come quinte teatrali, per comporre racconti complessi o di plastica evidenza. L’unica infrastruttura visibile in mostra è curiosamente il Ponte di Messina: la grande opera che perseguita l’Italia come un demone oscuro, riemergendo a intervalli regolari per devastare le finanze e il dibattito pubblico, qui è nobilitato dai bellissimi disegni per il concorso del 1969 di Nervi e di Musmeci, il re dei ponti italiani, e poi annacquato nelle foto d’archivio della traversata a nuoto, promossa ogni anno dal 1954 dal Centro nuoto sub villa e, infine, aggirato con la fascinosa serie Ferry Boat, Ferry Blue di Filippo Romano.