Nell’immaginario collettivo italiano e in quello statunitense, le migrazioni che tra il 1861 e la metà del Novecento condussero negli Usa circa sei milioni di persone vengono visualizzate come fotografie in bianco e nero di gruppi famigliari composti di contadini evidentemente analfabeti che sbarcano a Ellis Island, e sotto lo sguardo della Statua della Libertà appaiono attoniti e spauriti di fronte al caotico spettacolo di una modernità che anziché accoglierli amichevolmente li scaraventa in un girone infernale di controlli tanto spietati quanto incomprensibili. Come tutti gli stereotipi, anche questo si basa sul fondo incontrovertibile di una realtà diffusa, che viene però estesa a dismisura, fino a sovrapporsi completamente su un panorama assai più variegato e contraddittorio. E come tutti gli stereotipi, si ripropone quasi identico a sé stesso anche dopo le ormai numerose revisioni effettuate dagli studi sulle migrazioni da cinquant’anni a questa parte, come testimoniato da un film peraltro felicemente riuscito qual è Nuovomondo di Emanuele Crialese – e contraddetto invece già quarant’anni fa da un altro film, Good Morning Babilonia dei fratelli Taviani, che pur con una certa schematica artificiosità recupera alla memoria collettiva la storia dei tanti artigiani italiani che hanno partecipato alla costruzione degli Stati Uniti del Novecento sia materialmente (i muratori di elevatissima professionalità immortalati da romanzieri quali Pietro di Donato, in Christ in Concrete, e persino Don DeLillo, in Underworld), sia simbolicamente, con il loro operato nei campi dell’architettura, della musica o del cinema nella fase di massima espansione mondiale (innanzitutto grazie al cinema) del dominio culturale americano.
Nel film dei Taviani, due fratelli toscani, artigiani e restauratori di chiese, emigrano in America, trovano lavoro nel padiglione italiano dell’Esposizione Universale di San Francisco del 1915, si fanno apprezzare per la loro abilità e vengono reclutati per lavorare sul set di Intolerance, il maestoso film «pacifista» che D.W. Griffith gira nel 1916 (ispirandosi esplicitamente al primo vero kolossal della storia del cinema, quel Cabiria diretto nel 1914 da Giovanni Pastrone e sceneggiato da Gabriele D’Annunzio, che ne scrive le didascalie), quasi come «riparazione» per il geniale, ma esplicitamente razzista fino al ridicolo, Nascita di una nazione dell’anno prima.
LA GRANDE CULTURA
Le vicende di questi due rappresentanti di una emigrazione che, per quanto determinata in primo luogo dalla classica necessità di cercare fortuna lontano da una terra matrigna che ha mandato in rovina la loro famiglia, non coincide con il modello tradizionale di un lumpenproletariat disperato e privo di ogni familiarità con la «grande» cultura italiana, trovano numerosi riscontri nella mostra L’Italia a Hollywood, a cura di Stefania Ricci e Giuliana Muscio, inaugurata al Museo Salvatore Ferragamo di Firenze il 24 maggio scorso e in esposizione fino al prossimo marzo. Il percorso della mostra propone come punto di partenza proprio l’esposizione di San Francisco del 1915, dove la «Cittadella italiana» progettata da Marcello Piacentini (futuro massimo esponente del Modernismo fascista, ma in quegli anni ancora fautore di un’estetica neorinascimentale che trovava riscontro oltreoceano nella diffusione del cosiddetto Italianate Style) offre al vasto pubblico statunitense un’immagine dell’Italia come luogo in cui l’accumularsi di secoli di tradizione riesce a fondersi felicemente con una sorprendente modernità.
In quegli stessi anni la California diventa polo d’attrazione sia di quelle compagnie cinematografiche indipendenti che, sconfitte dal monopolio della Motion Picture in tutta la costa orientale, sono costrette a «emigrare» altrove, sia di un numero rilevante, sebbene non paragonabile all’enormità delle masse che si stabiliscono a New York o a Chicago, di immigrati italiani in possesso di elevate competenze professionali e «artistiche» che alla nascente industria dei sogni di Hollywood risultano immediatamente «impiegabili».
CALZOLAIO DELLE STELLE
Un caso esemplare è appunto quello di Salvatore Ferragamo, aspirante calzolaio che a soli sedici anni, nel 1914, emigra prima a Boston e poi in California, a Santa Barbara, dove apre un negozietto di riparazioni e scarpe su misura, che nel 1923 trasferisce nella nascente Mecca del cinema, quell’Hollywood Boot Shop dove inizierà a produrre le calzature di scena per spettacoli musicali e soprattutto per il cinema, punto di partenza per una storia esemplare di felice realizzazione del «sogno americano». Questa storia, che occupa un posto importante ma «discreto» all’interno della mostra, come sua conclusione, potrebbe apparire a tutti gli effetti una celebrazione del mito del self-made man che riesce ad ascendere «from rags to riches» (dalle stalle letteralmente alle stelle, in italiano, visto che Ferragamo è diventato famoso come il «Calzolaio delle stelle»). È evidente il rischio che il racconto di queste e di altre «success stories» (come quelle di Rodolfo Valentino, Enrico Caruso e Tina Modotti, o della meno ricordata Lina Cavalieri, cantante lirica e attrice che all’inizio del Novecento viene addirittura insignita del titolo di donna più bella del mondo) si configuri come una ricostruzione sostanzialmente agiografica, con il risultato di sostituire allo stereotipo del «paesano» ignorante che affolla i «tenements» (i caseggiati) delle metropoli della costa est lo stereotipo uguale e contrario dell’italiano raffinato e acculturato che grazie a questa sua italianità «alta» sa non solo «americanizzarsi» ma anche conquistare un posto di rilievo all’interno della società e della cultura del Nuovo mondo.
Il potenziale paradosso di un melting pot al contrario, che anziché cancellare le tracce delle identità migranti all’interno di un’indifferenziata adesione ai valori dell’American Way invece le esalta e le integra nel grande caleidoscopio dell’impero hollywoodiano dei sogni e dei segni, e di sue province limitrofe quali l’opera lirica, l’arte fotografica e persino il jazz, viene però decostruito dall’esposizione, che disegna un tragitto sempre attento a far dialogare la dimensione spettacolare di quell’universo (e della presenza italiana al suo interno) con la storia più ampia e spesso oscura di una diaspora che non può essere ridotta ad alcuni schemi interpretativi a scapito di altri, ma deve essere riconsiderata nella sua complessità, anche quando, come in questo caso, si privilegia un suo aspetto peculiare.
Un ausilio essenziale alla lettura in profondità dell’articolazione della mostra arriva, in questo senso, dal catalogo, che va ben oltre i limiti codificati di «manuale delle istruzioni», e si configura come un preziosissimo contributo al campo degli studi italoamericani, con saggi di studiosi e studiose come, oltre alle stesse organizzatrici, Maddalena Tirabassi o John Paul Russo, che nel descrivere quel che l’esposizione fa vedere fanno riemergere anche quella storia sommersa che altrimenti resterebbe invisibile, e inoltre illuminano prospettive «devianti» grazie alle quali si rivelano talune «frizioni» con la cultura dominante, tanto più interessanti quanto più rilocalizzano figure ormai assurte al ruolo di icone quasi innocue di un’italianità pacificamente assimilata in posizioni che ne suggeriscono un potenziale sovversivo – basti l’esempio delle numerose foto di Rodolfo Valentino in atteggiamenti che ne evidenziano l’ironica autoconsapevolezza di una sessualità mediterraneamente ambigua perché non riconducibile ai rigidi cliché angloamericani della virilità, o della quasi perversa ridefinizione dell’erotismo nelle foto in cui Tina Modotti ritrae sé stessa, scompaginando la gerarchia del rapporto tra sguardo maschile e corpo femminile. Se nel corso dei primi decenni del Novecento gli italiani scoprivano davvero l’America, emigrandovi in massa, Hollywood faceva scoprire all’America un’Italia che finora era conosciuta solo a un’élite relativamente ristretta, e nel farlo iniettava nella cultura americana pulsioni e suggestioni che risuonano fin nel presente, e di cui ancora dobbiamo studiare a fondo effetti e conseguenze.