Ci è toccato aspettare fino al 1973 per battere i Maestri. Da allora, però, abbiamo avuto spesso la meglio dei Three Lions, soprattutto nelle competizioni ufficiali. Italia-Inghilterra non è e non potrà mai essere una sfida banale. È un confronto tra due stili di gioco, tra due filosofie che hanno segnato profondamente la storia del football. Gli azzurri che badano primo a non prenderle, che sono organizzati e speculativi, i bianchi che puntano sul fisico, sulla grinta, che non mollano mai. In epoca moderna, anzi, di calcio moderno, le differenze sono molto più sfumate. Pensate al Brasile e a quanto il loro futebol sia meno spettacolare e bailado, più europeo. Però l’imprinting primigenio rimane.

Nel grande libro del calcio il capitolo Italia-Inghilterra si apre nel maggio del 1933. In campionato da noi domina la Juventus di Mumo Orsi e Giovanni Ferrari, da loro l’Arsenal del visionario allenatore Herbert Chapman, quello dello schema WM, che per l’occasione è anche il selezionatore della nazionale. L’incontro si disputa al cospetto di Benito Mussolini allo stadio nazionale del partito fascista (l’attuale Flaminio), denominazione che ci ricorda in che razza di periodo si stia vivendo. L’Italia che si appresta a ospitare e vincere, proprio in quell’arena, la seconda edizione dei Campionati del Mondo, impatta 1-1, facendo un figurone.

Oltre Manica non ci pensano neppure a mischiarsi con le altre squadre e di mondiale non vogliono nemmeno sentir parlare. Però quando nel novembre del 1934 i neo-campioni si presentano all’Arsenal Stadium, per tutti Highbury, gli altezzosi padroni di casa ci tengono eccome a far bella figura, a battere i detentori della Coppa Jules Rimet. Ci riusciranno, ma di misura.

In campo ci sono ben sette giocatori dell’Arsenal e un giovanissimo Stanley Matthews. L’alba del match non può essere più disastrosa per gli italiani, sotto di tre goal dopo appena 12 minuti e praticamente con un uomo in meno. Succede infatti che in un contrasto durissimo con Drake Monti si fratturi un osso del piede. Ma non è l’unico a infortunarsi in una disfida zeppa di colpi proibiti e fallacci. Botte da orbi che costarono un naso rotto a Hapgood e una caviglia in pezzi a Bowden. Non fosse per i miracoli di Moss e i vigorosi tackle di Copping, i Tre Leoni rischierebbero di vanificare quell’immediato vantaggio. Finisce 3-2, perché nel secondo tempo sale in cattedra Beppe Meazza, autore di una doppietta. Con una prestazione all’insegna della grinta e della determinazione, i leoni di Highbury, come furono poi ribattezzati gli azzurri, sfiorano l’impresa. Ma tornano a casa comunque battuti.

Pure nel 1948 va male. L’Italia è incardinata sul blocco del Grande Torino. Si gioca proprio nel capoluogo piemontese. Gli inglesi ci schiacciano sotto ben quattro reti. A zero. Pronti via e Stan Mortensen, vigoroso attaccante del Blackpool, si inventa una prodezza quasi dalla linea di fondo campo, come racconta strabiliato Nicolò Carosio per radio. Poi ci pensa mister versatilità, Tom Finney (icona del Preston North End, scomparso da poco) a rendere il risultato trionfale per loro e umiliante per noi.

Nel 1959 ci riesce di pareggiare nel tempio di Wembley contro un’Inghilterra però ancora segnata dalla tragedia che ha colpito solo un anno prima il grande Manchester United. Quando in un nevoso pomeriggio a Monaco di Baviera l’aereo che riporta a casa i leggendari Busby Babes si schianta sulla pista dell’aeroporto locale.

Poi, dopo un altro rovescio interno a inizio Sessanta, ci sarà una pausa di ben 12 anni nei vis-a-vis calcistici tra le due nazionali. In quel lasso di tempo per noi Inghilterra fa rima con Corea del Nord. La nazionale che alla Coppa del Mondo del 1966 ci umilia in quel di Middlesbrough – profondo nord-est operaio – grazie a un goal di Pak Doo Ik. Da allora per tutti “il dentista coreano”, sebbene in realtà fosse un professore di educazione fisica. Loro quel Mondiale lo vincono. Al di là del celeberrimo episodio del goal-non-goal di Hurst nella finale contro la Germania Ovest, hanno fior fior di campioni, come Bobby Charlton e Bobby Moore. Nel 1973, quando ci ripresentiamo a Wembley per fare il colpaccio, giusto 39 anni dopo la battaglia di Highbury, quella generazione bella e vincente è ormai agli sgoccioli. Il match contro l’Italia sarà l’ultimo per il capitano Bobby Moore. “L’Italia è una squadra di camerieri”, titolano in maniera sprezzante i tabloid alla vigilia, facendo riferimento a Giorgio Chinaglia, emigrato in Gran Bretagna da bimbetto. Sugli spalti di quei “camerieri” ce ne sono parecchi. Vanno tutti in visibilio a quattro minuti dalla fine. Quando Fabio Capello agguanta una corta respinta di Peter Shilton e regala all’Italia una delle vittorie più prestigiose della sua storia. Ma non è la prima, perché sempre nel 1973, per il 75esimo anniversario della nostra federazione, a Roma Pietruzzo Anastasi e il solito Capello hanno già sfatato l’ultimo tabù del calcio italico.

A Wembley rivinceremo 24 anni dopo. In un match di qualificazione ai Mondiali francesi “basta” una magia di Gianfranco Zola, il giocatore italiano più amato e apprezzato in terra d’Albione – specialmente dai tifosi del Chelsea, per i quali è un idolo assoluto.

Come già accennato, negli ultimi decenni gli azzurri si dimostrano spesso superiori agli avversari. In particolar modo negli scontri in cui in palio c’è qualcosa di concreto e non solo l’onore. Dopo aver estromesso gli inglesi, superandoli per differenza reti, nel girone di qualificazione ad Argentina 1978, negli Europei casalinghi del 1980 la spuntiamo 1-0. Segna Marco Tardelli, ma non impressioniamo troppo – né lo fanno i nostri avversari, che, infatti, se ne torneranno subito a casa, mentre a noi rimarrà uno scialbo quarto posto.

Sempre in Italia, nel 1990, ci contendiamo la terza piazza ai Mondiali in quel di Bari. Magra consolazione, dopo le sconfitte ai rigori nelle semifinali patite dall’Argentina (noi) e dalla Germania (loro). Però quello che conta è il clima del match. Di grande rispetto e oseremmo dire di amicizia sia fuori che soprattutto in campo. Solo cinque anni prima si era consumato l’assurdo dramma dell’Heysel e quella partita è la prima tra una compagine italiana e una inglese dall’infausta sera brussellese del 29 maggio 1985. Ci pensano Roby Baggio e Totò Schillaci a darci il contentino, ma alla fine è festa grande per tutti, in un’atmosfera riconciliatoria.

Più tesa e combattuta, ma non poteva essere altrimenti, l’ultima disfida nei quarti di Euro 2012. L’Italia, poi strapazzata dalla Spagna in finale, gioca meglio e domina per lunghi tratti un’Inghilterra balbettante – ma tutto sommato per una volta già soddisfatta di aver passato almeno il primo turno. Wayne Rooney rischia di scompaginare tutto nei minuti conclusivi, ma si va ai rigori. Ed è giusto così. Sbaglia Montolivo, ma prima Cole e poi Young ci spianano il passaggio alle semifinali. Dagli 11 metri se noi non siamo fenomeni, i Tre Leoni di solito diventano gattini impauriti.

Ora c’è l’incontro di Manaus, che può essere già decisivo. L’Inghilterra è reduce dagli scialbi pareggi con Ecuador e Honduras. Ma mai darla sconfitta in partenza…