Dovrà ricredersi chi pensava che l’energia del nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi avrebbe portato a nuovi equilibri in Europa. Che gli italiani si debbano considerare «scolari dietro la lavagna» oppure no, la sostanza è sempre la stessa: la politica di «gestione della crisi» seguita sin qua non cambierà di una virgola. Nell’Unione europea continuerà a regnare incontrastata la visione conservatrice e liberista, apparentemente temperata dalle immancabili concessioni retoriche alla «necessità della crescita». Nessuna «svolta buona», quindi.

Questo è il significato politico fondamentale del tanto atteso debutto di Renzi in versione premier a Berlino. La cancelliera democristiana (Cdu) Angela Merkel, ovviamente «molto colpita e ben impressionata» dal giovane collega, ha pronunciato la frase-chiave della conferenza stampa dopo l’incontro fra le delegazioni: «Non ho dubbi che l’Italia rispetterà tutti i parametri europei». Con le elezioni europee alle porte, Merkel ha potuto verificare in presa diretta che a Roma non c’è nessuno che le renderà complicato chiedere i voti ai suoi concittadini: i partner della periferia sono «affidabili», e Renzi non fa rimpiangere Enrico Letta.
Il neopremier, da par suo, ha incassato il pubblico apprezzamento della cancelliera per alcune delle misure contenute nel Jobs Act: in particolare, l’innalzamento a 3 anni della durata massima del contratto a tempo determinato senza causale, su cui in patria piovono critiche. L’ok di Merkel non è casuale: il segretario del Partito democratico ha dichiarato di ispirarsi proprio alle «riforme» tedesche della cosiddetta «Agenda 2010», risalenti al governo di Gerhard Schröder, che resero più precari i rapporti di lavoro. Ma per i governi di Berlino e Roma si tratta, invece, del segreto del successo della Germania: il Modell Deutschland.

Il Paese che ieri ha accolto l’ex sindaco di Firenze è in piena euforia da conti pubblici «sani». Secondo il ministero delle finanze, guidato dall’esperto Wolfgang Schäuble (Cdu), la Repubblica federale può vantare un bilancio in sostanziale pareggio ed è attrezzata al meglio per riportare – come prevede il Fiscal compact – nel giro di un decennio il suo debito dall’attuale 80 per cento al di sotto della soglia magica del 60 in rapporto al Pil.

I recenti richiami della Commissione europea a mettere in equilibrio la bilancia commerciale, correggendo l’eccesso di export, non sembrano turbare la placida tranquillità di Merkel, che mostra di non avere intenzione di correggere alcunché. «I nostri prodotti vanno soprattutto al di fuori dell’Ue»: così suona il leit-motiv difensivo della cancelliera, che rivendica di stare già facendo molto per il rafforzamento della domanda interna. Ad esempio, l’introduzione del salario minimo legale di 8,5 euro l’ora.

Il sindacato dei servizi (Ver.di) non è dello stesso avviso, e ha dato il via ad una serie di scioperi in occasione dell’inizio delle trattative per il rinnovo del contratto del pubblico impiego. Gli oltre 2 milioni di lavoratori di comuni, regioni e federazione vogliono più soldi in busta paga: per il sindacato è giunto il tempo di aumenti di circa il 7 per cento, «dopo anni nei quali la quota-salari è costantemente diminuita in relazione all’insieme del reddito nazionale». Era il 72,5 per cento nel 1992, nel 2012 era scesa al 67,3%: nei calcoli di Ver.di significa 80 miliardi in 12 anni.

Accogliere le richieste del sindacato dei servizi (dopo la IgMetall, la seconda categoria più importante della confederazione unitaria Dgb) significherebbe, a dispetto della propaganda di Merkel, fare qualcosa di concreto per rafforzare finalmente la domanda interna. Le posizioni dei negoziatori dalle due parti del tavolo, però, sono al momento lontanissime fra loro: secondo i portavoce dell’amministrazione, la piattaforma «estremista» dei lavoratori pubblici non tiene conto delle esigenze di bilancio.

A fianco dei lavoratori in mobilitazione è schierata la Linke che, attraverso la vicecapogruppo al Bundestag Sabine Zimmermann, mette in evidenza non solo i problemi salariali, ma anche l’aumento del precariato nel settore pubblico: il 20 per cento dei nuovi assunti è a tempo determinato. Inoltre, per il principale partito di opposizione «devono aumentare gli investimenti nelle infrastrutture e nei servizi, attraverso le maggiori entrate che sarebbero garantite da una vera tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze». Un’imposta promessa dalla Spd in campagna elettorale, e poi sacrificata sull’altare della Grosse Koalition.