È Il triste spettacolo del calcio che si fa spettacolo, e così facendo «atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio». Un doveroso pensiero a Eduardo Galeano, sommo narratore del calcio come danza della vita, uruguagio tanto quanto quel Diego Godin, difensore cresciuto nel Cerro, classe 1986, che con un colpo di scapola, più che di testa, ha mandato a casa l’Italia e decapitato i vertici del calcio italiano. Tante miserie e nessuno splendore, in quella che è stata una delle partite peggiori viste in questo Mondiale.

Del Costarica non sapevamo nulla, come ammesso da Balotelli prima del match che ha messo le cose in chiaro circa le reali possibilità e gli eventuali meriti della nazionale italiana, neanche se fosse più giusto dire «il» o «la» Costarica. Ma dell’Uruguay sapevamo tutto, sapevamo come minimo che loro sapevano, grazie ai 12 apostoli – guidati dal tupamaro di Cristo, Edinson Cavani – che giocano nel nostro campionato. Ma dei due risultati utili che l’Italia poteva centrare è uscito il terzo. Fine del doping renziano, scaduta la pozione magica dell’Italia che va di corsa, l’ottimismo dei giusti che va a farsi benedire. Il minuto è più o meno quello in cui Ghigghia, nella famosa finale del 1950, soffiò al Brasile, nel suo stesso tempio, la finale che i verdeoro pensavano di avere già in tasca. È il «Maracanazo d’Italia».

Prandelli si dimette, il capo della federcalcio Abete pure, ma spera che il prossimo consiglio federale respinga le dimissioni dell’allenatore. È l’esito detonante di una partita della quale rimarrà l’inconcludente fronteggiarsi di due squadre apatiche e impaurite, imbottite di dettami tattici e nessun fremito creativo. Nessuno «sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito», direbbe ancora Galeano. Solo un morsicatore seriale che è stato capace persino di far vestire a Chiellini i panni del buono, la vittima innocente che scopre la spalla per mostrare all’arbitro e al mondo l’impronta dentaria che Luis Suarez gli ha lasciato per ricordo. In Premier League, dove l’attaccante uruguayano gioca, lo conoscono specialmente per questo. Ci fosse ancora la Thatcher, che qui in Italia invidiamo per come ha saputo ripulire gli stadi, lo farebbero giocare con la museruola.

Miserie tante, splendori zero, l’«arte dell’imprevisto» non abita qui. E quello che da parte dell’Uruguay condannata a vincere sembrava immobilismo suicida, apparirà dopo il triplice fischio finale come la calma dei forti, pazienti e diligenti, capaci di aspettare il minuto buono per colpire, fosse pure l’ultimo. Un candombe lento e lattiginoso, che prima o poi arriva al punto. Ora si dirà che la colpa è del caldo e ancor più dell’arbitro, che perdipiù si chiama Moreno, un predestinato del torto all’italica potenza calcistica. Ma non ci crede nessuno.

Blocco juve dietro, all’inizio ordinati e tranquilli, pure troppo. Poi crampi, appoggi sbagliati, nulla di nulla in avanti. Immobile di nome e di fatto. Balotelli non pervenuto ma ammonito, e dunque sostituito. Corre e guizza solo Verratti, ma per incidere dovrebbe giocare almeno trenta metri più avanti. Buffon deve uscire doppio, su Suarez e Lodeiro, Prandelli avrebbe accettato un pareggio solo se pugnato, aveva detto, ma per uno squallido 0-0 come quello che andava profilandosi a un certo punto, con l’Italia in dieci, ci avrebbe messo la firma

La partita della Vita, si è detto. La partita della Morte, anche. Notizie prive di qualsiasi fondamento: come quella secondo cui con il 3-5-2 avremmo asfaltato l’avversario, con Darmian e De Sciglio a sfrecciare come missili sulle fasce. Come quella rimbombata nel pre-partita sulla morte del torceador napoletano Ciro Esposito. Come l’affermazione che «la palla è rotonda», ripetuta ad anello nel tormentone di Mina che imperversa nelle trasmissioni Rai (sarà mica sferica?).

Vero è che Prandelli si dimette. Ferito da basse insinuazioni antipolitiche (la nazionale ruba i soldi ai contribuenti) e gossipare (vacanze prenotate in anticipo in Thailandia, con arrivo il giorno in cui si sarebbe dovuta giocare la gara degli ottavi). Prandelli che scambiava per senso della patria l’autostima che solo un presidente come Pepe Mujica può dare a un paese, e per tattica la fiducia che solo un quarto posto come quello centrato in Sudafrica dall’Uruguay può dare.

Difesa a 3, attacco a zero. Neanche un tiro in porta, in pratica, eccezion fatta per una pappina di Pirlo nel primo tempo spacciata per «maledetta». Irrisa dopo la sconfitta inaugurale con il Costarica, la nazionale uruguayana e la cabala maccheronica che la dà per sicura vincitrice del Mondiale 2014 si sono riprese la scena. Italia fuori con ignominia.

Nel frattempo i senatori leghisti chiedono il rosso per il premier, indignati dal fatto che Renzi non assista al dibattito in aula sul suo stesso discorso, e lo punzecchiano sugli stinchi. «Scusate, ho un impegno istituzionale», dice lui, riguadagnando il posto davanti alla tv. Ma al suo amico Prandelli va decisamente peggio… La Celeste rinverdisce la sua fama storica di cagionare irreparabili dispiaceri. Un incubo dietro l’angolo per lo stesso Brasile, che il 1950 ce l’ha tatuato nel suo immaginario più triste, ma così triste come solo i popoli molto allegri possono generare.

Abbiamo imparato un po’ della geografia complessa di questo paese, Manaus, Belem, Natal nel Rio Grande do Norte. Niente Rio, il Maracanà non è per questa Italia.