Il nazional-populismo ha un pensiero economico o perlomeno una prospettiva economica? Il diffuso ripiegamento nazionale è solo politico oppure sta prendendo corpo anche una corrispondente variante economica? La crisi del neoliberismo coniugata con quella della globalizzazione sembra aver dato vita a nuove forme politiche apparentemente alternative all’esistente, capaci di rompere i vecchi equilibri sovranazionali. Brexit e Trump, ma prima ancora il blocco dei paesi di Visegrad, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan. Insomma gli esempi non mancano e l’Italia odierna, piuttosto che un’anomalia, appare saldamente all’interno di questa nuova tendenza. Casi diversi, ma che in buona parte condividono un profilo identitario di chiusura.

Gli Stati Uniti stanno provando a invertire una tendenza caratterizzata da un’economia aperta su scala globale, riponendo al centro il loro storico profilo di economia chiusa in cui la crescita è trascinata da una grande domanda interna. Basti pensare che gli Usa tra il 1960 e il 1980 hanno avuto un rapporto medio tra esportazioni e Pil pari all’11,2%. Attualmente un paese come l’Italia ha una percentuale quasi tripla, che conferma un maggior grado di dipendenza dalla domanda estera. Il mercato interno americano, dunque, consente di dare una prospettiva economica al trumpismo, una prospettiva che non è chiaro quanto possa essere di lungo periodo, quanto possa reggere rispetto a quella parte di imprese a maggior valore aggiunto che, soprattutto grazie alle nuove tecnologie, va imponendosi per il pianeta. Ma di sicuro costituisce un’opzione praticabile nell’immediato.

Tant’è vero che la gran parte della old economy a stelle strisce la sostiene, Marchionne ancora pochi giorni or sono ha affermato che la politica dei dazi è «politicamente comprensibile», e persino le imprese più innovatrici non sembrano avversarla eccessivamente, come se non fosse il momento di scontrarsi con la pancia profonda del paese e, in ultima analisi, con la necessità di tutelare la domanda interna. In paesi come Ungheria e Polonia la crescita (una crescita che viaggia intorno al 4% annuo del Pil, almeno per ora) avviene all’insegna di significativi investimenti esteri, indebitamento privato, sostegno pubblico, sebbene i livelli di crescita rendano sostenibile l’indebitamento statale. Sono paesi orientati alle esportazioni che fanno concorrenza sui costi, in particolare del lavoro. Il nazional-populismo appare un progetto che da un lato sembra voler difendere le classi popolari autoctone, ma dall’altro si fonda semplicemente su una declinazione in scala minore del liberismo economico. La competizione resta centrale, ma nella dimensione nazionale o regionale.

Il gruppo di Visegrad porta tensione all’interno del Vecchio continente sul tema dei migranti o delle regole democratiche, sebbene sfrutti i finanziamenti comunitari che riceve e non esclude di iniziare a guardare altrove (verso la Turchia o, perché no, la Russia). In questo contesto l’Italia a trazione giallo-verde appare come l’anello debole dell’opzione economica nazional-populista. Troppo grande per pensare di vivere esclusivamente orientata verso i mercati internazionali, troppo piccola per puntare prevalentemente sulla domanda interna. La direzione di marcia non a caso risulta contraddittoria: rigida politica anti-immigrati, approfondimento della segmentazione su base etnica del mercato del lavoro, reddito di cittadinanza (quale cittadinanza?), riduzione della pressione fiscale ispirata a principi di anti-progressività e riduzione della lotta all’evasione, infine blanda, ma inedita, difesa dell’intervento pubblico. Un cocktail che al di là di modeste novità positive rilancia un progetto per un’Italia ipercompetitiva in un’economia globale organizzata su bastioni nazionali. Una prospettiva genericamente non impossibile, ma che oltre che sbagliata ci potrebbe vedere anche perdenti.