Nei primi anni Novanta i rapper italiani hanno abbandonato l’inglese, utilizzato dalla nicchia attiva negli anni Ottanta, per iniziare a solcare le basi musicali con rime scritte nella nostra lingua. Soprattutto grazie a questo passaggio i fan sono aumentati in fretta e uno dei loro principali punti di riferimento è diventato, nel giro di pochi anni, Neffa. Quando questo pubblico, che ha dato vita al primo periodo di rilevanza popolare per il rap in Italia, ha scoperto che proprio Neffa prima di darsi alle rime a tempo suonava la batteria nei Negazione, band punk hardcore torinese, predominava l’incredulità. Come era possibile passare da un suono così ruvido e aggressivo, che nasceva da chitarre, bassi e batterie pestate e solcate da voci veementi e inquiete, a uno creato con drum machine, campionamenti presi da soul, jazz e funk e testi ben scanditi scritti puntando su rime, assonanze e giochi di parole spesso conditi di ironia? Eppure, il caso di Neffa non era isolato. Prendendo in considerazione la «sua» Bologna – città crocevia per eccellenza, composta da persone provenienti da sud, centro e nord Italia – tra gli esponenti dell’hip hop di quegli anni, molti avevano fatto questo passaggio.

ELEMENTI CONDIVISI
A posteriori, pensando a queste due sottoculture in apparenza lontane, il primo denominatore comune che viene in mente è l’accessibilità: per fare punk hardcore e rap non bisogna essere dei musicisti virtuosi né avere delle belle voci… ma questo è anche un luogo comune. Gli elementi condivisi erano soprattutto altri. Per esempio il rap in italiano nato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, come noto, ha trovato in fretta residenza nei centri sociali, negli spazi occupati prima che nei club, e anche il punk hardcore, magari in giorni diversi, frequentava gli stessi posti. Deda, socio di Neffa prima nell’Isola Posse All Stars, poi nei Sangue Misto e infine nel suo percorso solista, in una chiacchierata del 2021 fatta con chi scrive, raccontava come tra i propositi della scena punk hardcore – dove si è formato – ci fosse quello di «spezzare il meccanismo per cui c’era la star sul palco e poi il pubblico».

Ecco, i primi anni del rap in italiano erano anche quelli delle jam, dei microfoni aperti, insomma della fila per salire sul palco e proferire qualche rima: una buona parte del pubblico, infatti, voleva partecipare attivamente, voleva provare a rappare perché sentiva di poterlo fare. Gli adepti di queste sottoculture, insomma, in quegli anni potevano incrociarsi nei loro luoghi di socializzazione prediletti e in parte condividevano le attitudini e una certa visione della musica, vocazione all’autoproduzione o all’indipendenza compresa.
Non a caso gli anni Novanta sono quelli in cui, in un centro sociale occupato, poteva capitare di assistere a un concerto dei Fugazi e il mese dopo a uno dei Public Enemy ma il pubblico, in buona parte, era composto dalle stesse persone.

STESSA ATTITUDINE
Uno degli esponenti di entrambe queste scene era conosciuto come Dumbo tra i seguaci del punk hardcore della seconda metà degli anni Ottanta, mentre tra i patiti di rap, qualche anno dopo, si è affermato come Speaker DeeMo. Il nome con cui ha continuato a firmare i suoi lavori da grafico fino a oggi, invece, è semplicemente DeeMo. L’ex membro fondatore dell’Isola Posse All Stars, che i fan dell’hip hop ricordano soprattutto per il suo brano solista Sfida il buio (1992) ma anche per la sua attività da writer, ha continuato a realizzare artwork per album rap (e non solo) ma, tra i vari lavori, nel 2022 ha curato anche il libro Negazione-Collezione di attimi (Goodfellas Ed.), che racconta per immagini la storia dell’omonima band punk hardcore che ha frequentato per anni. Per parlare del periodo che, nella seconda metà degli anni Ottanta, ha visto questo passaggio dal punk hardcore al rap, quindi, senza dubbio è una delle persone più indicate, non a caso spiega anche l’importanza della lingua usata…

A Bologna, nel gruppo dell’Isola nel Kantiere, nella seconda metà degli anni Ottanta molti/e di voi sono passati/e dal punk hardcore al rap. Penso a te, Deda, Gopher e Neffa dell’Isola Posse All Stars che, seppur con trascorsi e ruoli diversi, vi eravate formati nella scena punk hardcore, ma anche a Dj Fabri, altro esponente che da quei suoni è passato all’hip hop. Cosa c’era nel rap di quegli anni che vi faceva sentire a vostro agio, visto che molti cultori musicali o musicisti vivevano le chitarre e i beat – per semplificare – come due universi in assoluto conflitto?
Sai che questa cosa non è per nulla facile da spiegare? È come se queste due culture apparentemente distanti condividessero la stessa attitudine. Specialmente in quegli anni, pre-boom bap. Ne trovo conferma, ad esempio, sul libro dei Beastie Boys e in Fuck You Heroes, la prima raccolta di immagini del fotografo Glen E. Friedman (libro con scatti di culto uscito nel 1994, ndr). Pur non vivendo a New York, è un’affinità che alcuni di noi hanno percepito a pelle e altri no. Non è che l’intera scena hardcore di Bologna si sia spostata in blocco verso il rap, né si deve immaginare l’Isola nel Kantiere come uno spazio in cui il rap metteva d’accordo tutti, perché agli inizi non era per nulla così. Semmai lo è diventato, verso la fine, per contaminazione: parola che torna utile se vogliamo dare un senso a molta della musica prodotta nei primi anni Novanta. L’avvicinamento da parte nostra è stato graduale e, per quel che mi riguarda, del tutto istintivo, non premeditato. Potrei usare il termine «inconsapevole». Raising Hell dei Run DMC e Licensed to Ill dei Beastie Boys sono due album usciti nel 1986 che hanno sicuramente giocato un ruolo importante: tutte quelle chitarre distorte e la produzione cristallina di Rick Rubin sono state l’esca perfetta. Potevamo fermarci a quelli, come tutti. Invece, per alcuni di noi – più o meno i nomi che hai citato nella tua domanda e pochi altri – l’hip hop ha finito per rappresentare l’unica alternativa possibile all’hardcore della prima ora, che proprio in quegli anni stava imboccando la sua parabola discendente. Onesto: quando uscì il primo album dei Public Enemy (Yo! Bum Rush the Show, 1987, ndr), lo acquistai più che altro per il logo e per lo scatto di Glen E. Friedman in copertina, sicuro che un gruppo con un nome del genere dovesse per forza suonare potentissimo. Vale a dire: con le chitarre a mille. I miei termini di paragone erano ancora l’album dei Run DMC e quello dei Beasties usciti l’anno prima. Il primo ascolto fu un po’ una delusione: c’era una sola chitarra distorta, quella di Vernon Reid dei Living Colour, in Sophisticated Bitch. Ci sono voluti più ascolti per rendermi conto che la frequenza delle chitarre era presidiata dagli scratch e dalla voce di Flavor Flav («socio» del frontman Chuck D e MC ombra, come lo hanno definito David Foster Wallace e Mark Costello nel saggio del 1990 «Il rap spiegato ai bianchi», ndr). L’album era violentissimo. Credo sia stato quello il momento in cui ho capito che non servivano le chitarre per suonare potente. Con quel suono ho iniziato a identificarmi. Ma da lì a prendere l’iniziativa, la penna e il microfono, passarono almeno tre anni.

Pensi che in particolare nell’Isola Posse questo background in comune abbia contribuito a farvi unire? E quanto ha influito il clima culturale della Bologna di quegli anni?
Siamo stati noi a influenzare il clima culturale di Bologna non il contrario: nel 1989, prima dell’Isola nel Kantiere, Bologna era davvero il «buco del culo del mondo». Negli anni precedenti, girando l’Europa con i Negazione, io e Fabri avevamo visto e preso idealmente appunti su come funzionavano gli spazi occupati ad Amsterdam, Copenhagen, Berlino, Zurigo. Non ti dico il senso di frustrazione rientrando in città. L’esperienza condivisa dell’Isola e nella scena hardcore ci ha sicuramente unito, ci ha dato una identità. Innanzitutto l’hardcore italiano aveva già affrontato nei primi anni Ottanta il tema della lingua, prendendo in larga maggioranza la strada dei testi in italiano. Nel momento in cui passi dall’inglese all’italiano, chi ti ascolta capisce cosa stai dicendo, e per la prima volta devi avere qualcosa da dire. In questo partivamo avvantaggiati perché almeno avevamo qualcosa a cui ispirarci. In più sapevamo come stampare i dischi, avevamo un circuito di spazi dove esibirci in tutta Italia e dove distribuire gli album, radio di movimento, contatti con la stampa specializzata eccetera eccetera. Un patrimonio collettivo consolidato da anni di autoproduzione nelle varie città. Al contrario, la scena hip hop italiana di allora poteva contare solo su luoghi di aggregazione informali come il Muretto o il Regio e non aveva altri interlocutori oltre alle radio commerciali e le etichette dance. Poter essere autosufficienti è stato di sicuro un vantaggio.

Questo passaggio dal punk al rap è stato un fenomeno più italiano che altro, o sbaglio? Perché negli Stati Uniti sicuramente, qualche anno prima, proprio i Beastie Boys avevano fatto un «salto» simile (anche perché a New York c’era un mix culturale totale) ma, per esempio, in Francia, dove il rap in quegli anni stava crescendo parallelamente all’Italia, non mi risulta che sia avvenuto qualcosa di simile.
In Italia e a New York. Non mi viene in mente altro luogo.

A ROMA

Chef Ragoo

Chef Ragoo, romano classe 1972, è un altro protagonista cruciale di questo passaggio storico. Da rapper molti lo hanno iniziato a notare grazie a una strofa presente sul disco Neffa e i messaggeri della dopa – esordio solista di Neffa del 1996 che ha portato alla ribalta proprio molti rapper che si vedevano più che altro alle jam – ma sin dall’adolescenza ha militato in vari gruppi punk hardcore come cantante e batterista. Oggi suona la batteria nei Greve e continua a essere attivo, da solista, anche nel rap. Il suo punto di vista dà ancora più rilievo alla peculiarità italiana di questo singolare passaggio dal punk hardcore al rap.

Quando hai iniziato a fare rap, cosa ti ha fatto sentire a tuo agio in un genere musicale e in un ambiente in apparenza così distanti dal punk hardcore, che ti ha formato e da cui provenivi?
Se in apparenza erano distanti, almeno a Roma, almeno per un certo periodo, sono stati fisicamente contigui. Io amavo passare il mio tempo al Forte Prenestino e in altri centri sociali, dove con i punk ci raccontavamo di star facendo qualcosa di utile per la società quando alla fine stavamo solamente esistendo e facendo il nostro. A un certo punto, sulla scena, cioè nei medesimi centri sociali, si è manifestato un altro gruppo di persone che raccontava di star facendo qualcosa di utile per la società e che alla fine stava solo esistendo e facendo il suo. Era il giro delle posse, che era un fenomeno nostrano, figlio delle stesse radici che hanno fatto sì che il punk in questo paese sia cresciuto a singhiozzo e fuori dalla timeline con cui si è sviluppato nella maggior parte dei paesi del mondo. Il rap delle posse a Roma aveva testi confusamente politici e ribelli abbinati a uno schieramento netto, partigiano. L’humus in cui è cresciuto era lo stesso del punk italiano, figlio del ’77 e nipote del ’68. Una parte dei punk, di cui io facevo parte, sentiva di agire in funzione di un cambiamento sociale, e chiaramente questo era un punto di vista condiviso con il rap delle posse. Quindi, a un certo punto, alcuni di noi punk, circondati da questa colonna sonora così differente che si diffonde come un contagio, hanno cominciato a seguire questo nuovo veicolo di protesta con un certo interesse. È un percorso diverso da quello di altre città d’Italia dove alcuni punk sono stati «prime mover» di questo momento di passaggio, e dove l’approccio magari è stato più musicale e meno movimentista.

Questo passaggio dal punk hardcore al rap a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, che proporzioni ha avuto nella tua città, Roma? A Bologna, solo prendendo in considerazione l’Isola Posse All Stars, erano in molti ad avere un trascorso simile al tuo: a Roma è stato lo stesso?
No, non direi. C’è stato interesse da una parte della scena hardcore, quella legata al movimento straight edge, sempre più attenta a quello che succedeva oltreoceano rispetto a noi punk sfattoni. Questo interesse è sfociato in alcuni concerti in double bill misto, mi viene in mente Growing Concern e Colle der Fomento o Evidence e Cor Veleno, ma questa cosa è sfumata presto. Credo che a parte me, a Roma del giro punk non ci fossero molti altri a fare rap, qualche fan ma pochi attivi al microfono o sui giradischi.

Dalla fine degli anni Ottanta a oggi, hai continuato a dedicarti a queste due sottoculture e ai loro generi musicali di riferimento. Immagino che i cambiamenti, anche visti dall’interno, siano stati molti. Cosa ti ha fatto rimanere legato sia al punk hardcore sia al rap? Solo lo spirito degli inizi oppure non disdegni le evoluzioni che ci sono state?
Al punk mi lega ancora molto l’aspetto sociale, anche se non amo quasi nulla di quello che emerge dall’hardcore contemporaneo, poco sporco, poco punk, poco pericoloso; allo stesso tempo i concerti punk continuano a essere una delle poche cose a cui mi diverte partecipare e i punk continuano a essere sempre persone divertenti con cui mi piace stare. Del rap invece mi interessano molto le derive contemporanee, anche quando non mi piacciono, ho anche una certa attrazione per la trap italiana più becera, quella che mi fa mettere le mani nei capelli per i contenuti delle canzoni. Trovo che siano fenomeni comunque degni d’attenzione che potrebbero aiutarci a interpretare la direzione in cui sta andando il mondo, nel bene e nel male. Il punk è più ancorato al suo passato di quanto lo sia il rap contemporaneo, che anche nella sua forma più mainstream sta sperimentando e sfondando più barriere musicali di quanto il punk abbia fatto negli ultimi vent’anni almeno.

Pensando proprio agli incroci concreti tra le due musiche, quali sono le canzoni rap influenzate dal punk e viceversa per te particolarmente significative? Anche degli album, se ci sono. E non necessariamente produzioni italiane.
Non lo so, non mi pare che dallo scambio tra questi due mondi sia mai uscito qualcosa che mi ha particolarmente influenzato. Per dirne una, non tollero i Rage Against the Machine. Posso però dirti tre dischi punk – forse non influenzati dal rap – che ritengo mi abbiano preparato ad accogliere il rap con una maggiore apertura: Cattivi maestri dei Peggio Punx, Quickness dei Bad Brains e Common Thread degli Spermbirds.