La crescita dell’occupazione trainata dal lavoro precario e a termine ha portato anche all’aumento della povertà assoluta. Nel 2017 ha riguardato poco meno di 1,8 milioni di famiglie. Secondo il rapporto annuale dell’Istat presentato ieri alla Camera. gli individui coinvolti sono circa 5 milioni, con un aumento di 154 mila famiglie e 261 mila individui in più rispetto al 2016. A queste cifre bisogna aggiungere altri 6 milioni. Tante sono «le persone che vorrebbero lavorare» senza riuscirci. Dal punto di vista territoriale, la povertà assoluta aumenta nel Mezzogiorno e nel Nord, mentre scende nel Centro. Ciò ha portato a un balzo delle diseguaglianze economiche. Hanno raggiunto un livello di 6,4 (6,3 nel 2016). È il risultato di un’analisi effettuata a partire dagli indicatori del Benessere equo e sostenibile (Bes) introdotti dal Documento di economia e finanza (Def) 2018.

IL NUOVO RECORD si registra in un paese dove quasi il 90% delle persone alla ricerca di un lavoro si rivolge a « reti informali» dei conoscenti, di amici e parenti. Poi arriva alle agenzie di intermediazione, annunci, università e, infine, ai centri per l’impiego. Da qui la richiesta rivolta alla politica dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, che ha chiesto «il rafforzamento dei servizi per l’impiego» considerati come «un elemento cruciale per realizzare politiche attive del lavoro efficaci, anche con riferimento alle misure di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale».

IL MOVIMENTO 5 STELLE ha preso la palla al balzo e ha sottolineato le dichiarazioni di Alleva. Nella bozza di «contratto» con la Lega, resa noto ieri, ai centri per l’impiego il prossimo governo destinerà 2 miliardi di euro. Più i 17 miliardi (stima Istat risalente al 2015) per la truffa linguistica del «reddito di cittadinanza» – così è ancora scritto nel documento anche se si tratta di un reddito condizionato all’obbligo di accettare un lavoro. A cosa tende questa rinnovata insistenza sull’istituzione di un «worfare» neoliberista sul modello tedesco («Hartz IV») ? Per i senatori dei Cinque Stelle che hanno commentato a caldo il rapporto Istat, questo sistema sarebbe il modo per arrestare la «svalutazione del lavoro, dei diritti e delle tutele». Sarebbe un’occasione per redistribuire le risorse in un paese dove il «gap» tra ricchi e poveri si allarga. Difficile sostenere questa posizione con un governo «carioca» che con la Flat Tax della Lega tende a premiare la ricchezza, la proprietà e ad aumentare le diseguaglianze. L’ipotesi per cui «un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo» (così è stato definito propriamente da Pasquale Tridico, ministro del lavoro in pectore dei Cinque Stelle) serva a una redistribuzione si regge sulla vecchia idea che disoccupazione e precarietà siano uno stato momentaneo al termine del quale torneranno a spendere. In realtà è la condizione strutturale in cui si trovano almeno 8 milioni di poveri «relativi» e più di cinque milioni di poveri «assoluti».

QUESTO RAGIONAMENTO si regge sull’ipotesi, tutta da dimostrare, per cui il lavoro intermediato dai centri per l’impiego sia a tempo indeterminato. Per questo il «reddito di cittadinanza» farlocco dovrebbe diminuire fino a estinguersi, stando a dichiarazioni di Di Maio. Considerata la natura precaria della ripresa occupazionale questa è una scommessa rischiosa sulla vita di milioni di persone. Senza contare le incognite legate al prometeico intento di creare un sistema di «workfare» che impiegherà anni per essere creato (se mai sarà creato). Per sostenere un simile scenario di lunga lena i Cinque stelle hanno parlato di investimenti statali in «settori ad alto ritorno occupazionale, il 34% dei quali da destinare al Mezzogiorno». Senza, il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca. Resta da vedere se riusciranno a mobilitare risorse Ue. È un’incognita. Per ora si discute se cambiare i trattati europei o meno.

L’UNICO «CAMBIAMENTO» in vista sul reddito – che non è di base né incondizionato – è quello della monetizzazione della povertà e una messa al lavoro dei poveri per aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Così inteso il «reddito» è un modo per creare una bolla occupazionale e dire che il Lavoro esiste perché lo dicono le statistiche.

*** «Il secondo paese più vecchio al mondo»
Nel rapporto annuale Istat l’Italia è il paese più vecchio del mondo dopo il Giappone con un’aspettativa di vita di 81 anni per gli uomini e di 85 per le donne e con 170 over 65 ogni 100 bambini tra zero e 14 anni. Una situazione rischiosa per il sistema previdenziale dato che il tasso di occupazione pur in crescita (al 58% nel 2017) resta tra i più bassi in Europa per la più alta precarietà delle donne. La qualità della vita è diseguale. A Bolzano si guadagnano 10 anni (69,3 per gli uomini e 69,4 anni per le donne). Gli uomini della Calabria e le donne della Basilicata 51,7 e 50,6 anni.

*** In 10 anni il lavoro operaio si è terziarizzato
In un decennio la mappa del lavoro è cambiata e il lavoro manuale segna una decisa contrazione: tra il 2008 e il 2017 sono scesi di un milione gli occupati classificati come «operai e artigiani» mentre si contano oltre 860 mila unità in più per le «professioni esecutive nel commercio e nei servizi» in cui rientrano gli impiegati con bassa qualifica. Il lavoro operaio, manuale, industriale non è finito ma si sta trasformando seguendo una tendenza ormai storica verso un’economia terziarizzata e proletarizzata. Lo ha rilevato l’Istat nel rapporto annuale: nell’industria si sono perse 895mila «unità» di lavoro e nei servizi se ne sono guadagnate 810mila.