Massimo Zamboni aveva già abituato i suoi lettori con L’eco di uno sparo del 2015 a quell’impasto originale e personalissimo in grado di intrecciare memoria privata, e nello specifico famigliare, e storia pubblica senza però mai rinunciare ad un gusto non banale per il romanzesco, per la narrazione e per il piacere della lingua. Ora con La trionferà (Einaudi, pp. 234, euro 19,50), Zamboni non solo prosegue in un percorso autoriale tra autobiografia e storia, ma attraverso la singolarità di un paese come Cavriago – in provincia di Reggio Emilia – affronta la memoria politica di una nazione attraverso quella di un centro composto da poco meno di dieci mila anime.

CAVRIAGO, noto alle cronache per il busto di Lenin (ora sostituito da una copia) è un luogo paradigmatico di un mondo – quello della pianura emiliana in particolare – che ha saputo vivere, potremmo dire, in maggioranza l’opposizione. Cavriago dunque non proprio lo specchio di una nazione, ma in qualche modo la sua anima. L’essenza di un discorso politico che ha avuto una sua specificità tutta emiliana. Una terra abituata al dialogo e al bene comune, senza però la necessità di un compromesso obbligatorio e perenne. Un luogo dove l’ideologia batte direttamente nel cuore perdendo ogni sua rigida accezione teorica, ma definendo con pragmatismo nella pratica quotidiana un futuro possibile.

La trionferà prende avvio dalla fine dell’Ottocento, dalle lotte contadine per raccontare l’evoluzione politica ed economica di un luogo che fu poverissimo e poi divenne classe media, un racconto che ad un certo punto si intreccia con la biografia dell’autore, giovane lettore (e diffusore) de l’Unità.

UNA NARRAZIONE che tiene unite le figure raccontate come pezzi di un’unica biografia, vero e proprio elemento distintivo di un’idea politica visionaria che ebbe le sue radici nella storia di ogni singolo abitante. Massimo Zamboni racconta così l’incredibile rapporto che lega Cavriago alla figura di Lenin e alla stessa rivoluzione, fino all’avvento del fascismo e al ritorno con la Repubblica di una maggioranza comunista pressoché perenne. L’autore è molto attento ad evitare il facile gusto per il folklore di un comunismo che oggi ha il sapore di una vecchia cartolina definendo invece i contorni di un mondo che fu capace di contenere dentro di sé enormi contraddizioni, ma anche e soprattutto un vero e proprio popolo.

Risulta così quasi incredibile constatare oggi l’apertura d’orizzonte di un’amministrazione comunale che guardava realmente al mondo come unico confine e che aveva una fiducia estrema verso ogni tipo di produzione culturale, anche quelle molto lontane dalla propria storia.

QUELLO CHE ZAMBONI racconta non è però la storia di un caso, di un’eccezione, ma la storia di un luogo che seppe offrire spazio e libertà di espressione critica e al tempo stesso fiducia e che come tale rivelò una comunità capace di vivere senza paura le proprie scelte. Un vero e proprio album di famiglia con l’inevitabile nostalgia per chi non c’è più, ma anche con il desiderio, dato da una brace antica, di inventarsi un nuovo modo di essere una comunità.