È aprile e gli alberi del parco Gezi sono ancora al loro posto, per il momento. Il parco è piccolo e i vialetti cementificati ricoprono metà della superficie. Le piccole aiuole fiorite e le scarsissime cartacce, la mamma con i bambini, le altalene e l’uomo sdraiato sull’erba sembrano figure di un quadro rassicurante. Ma tutti sanno che il parco è diventato un simbolo di lotta. Visto da piazza Taksim, il verde degli alberi di Gezi sembrava un fondale e ora è il protagonista. Si respira un’aria di attesa nervosa. OccupyGezi il 1° Maggio, nonostante i divieti, potrebbe tornare a manifestarsi.

Davanti alla scalinata che porta al parco, intanto, i capolinea degli autobus sono spariti. I negozi e gli uffici che costeggiavano un tempo il fianco sinistro di Gezi sono stati abbattuti. Il viale è stato pedonalizzato, la viabilità stradale interamente modificata. Tutto può ancora succedere: gli alberi, gli ultimi alberi del centro di Istanbul, possono essere sradicati, nuovi edifici possono sorgere in nome della gloria ottomana e del commercio attuale. Dall’altro lato di piazza Taksim, all’imbocco di viale Istiklal, la folla è molto più fitta. La polizia vi staziona in assetto antisommossa, tra i suoi autobus e le camionette corazzate nascoste dietro l’angolo, oppure vi si aggira in borghese, a seconda delle occasioni, comparendo e scomparendo a gran velocità.

Nel vicinissimo Institut Français, fino ad agosto, sono i mostra i disegni di Selçuk Demirel, illustratore turco attivo da anni in Francia, classe 1954. La mostra, intitolata À vol d’oiseau ha come manifesto uno stormo onirico di uomini in giacca e cravatta che volano perché invece della testa hanno un enorme occhio alato. Prendendo esempio, si può procedere a volo d’uccello lungo il viale Istiklal voltando le spalle a Taksim. L’occhio alato ci permette di vedere molto.

La sede del Tkp, il partito comunista turco, ai piani alti di un palazzo che sorge accanto a Demirören, il più recente e ricco centro commerciale della via. La doppia premiazione del 33° Festival del Film di Istanbul, al film norvegese Blind di Eskil Vogt e al film turco Ben o degilim («io non sono lui») di Tayfun Pirselimoglu, che a novembre aveva vinto il premio per la migliore sceneggiatura al festival del film di Roma e aveva colpito il non folto pubblico per la sua poesia malinconica e lo stile asciutto. I commessi della libreria D&R che sistemano in vetrina l’ultimo libro di Yasar Kemal, un’antologia di articoli scritti negli anni settanta sui ragazzi di strada. Tra le riviste, Paros, scritta in turco, ma da una redazione greca e armena. Ragazzi del piccolo Partito Movimento dei Lavoratori (Ehp) che distribuiscono volantini per la manifestazione del 1° Maggio a Taksim.

Sopra di loro, gli enormi striscioni con cui il sindaco del municipio della zona (Beyoglu), che ringrazia per essere stato rieletto: si chiama Ahmet Misbah Demircan ed è dell’Akp, il partito di Erdogan. In un cantiere che lavora giorno e notte, un operaio che lavora su una scala a quattro metri di altezza, agile come un funambolo e, come lui, senza alcuna rete di protezione. In un bar, davanti a un caffè lungo, la scrittrice Ayfer Tunç, che a gennaio ha pubblicato il suo ultimo romanzo, Dünya agrisi («il dolore di stare al mondo», il Weltschmertz di Jean Paul). Sì, le sue storie che mettono la Turchia di fronte allo specchio si vanno facendo sempre più nere, i suoi personaggi assumono una doppiezza quasi dostoevskijana, le loro colpe nascoste dietro il paravento delle convenienze familiari e sociali fermentano come una fogna contaminata.

Il paese, dice, vive un boom economico che è sul punto di sgonfiarsi, troppo basato com’è su un’edilizia che produce edifici e appartamenti che restano invenduti. La popolazione cresce, ma l’istruzione raggiunge sempre il solito ristretto numero di persone che vivono nei quartieri migliori di poche grandi città. Il resto è un’immensa provincia, con tutto ciò che di negativo risuona nella parola. Ma l’ottimismo resta per lei un dovere: se non il presente, con i suoi tuoni di guerra a nord e a sud, i giovani le lasciano spazio alla speranza.

L’occhio prosegue il suo volo, fino a imbattersi in due grandi striscioni pubblicitari. Uno pende dal palazzo che ospita la libreria Insan Kitap e pubblicizza il nuovo libro di Iskender Pala Mihmandar, romanzo storico di stampo neo-ottomano sulla figura di Eyup sultan, il compagno del Profeta che morì nel tentativo arabo di conquistare Costantinopoli (VII sec.) e a cui è dedicato una delle più importanti moschee di Istanbul (in vetrina, si trova accanto al nuovo romanzo di Elif Safak, dedicato a Mimar Sinan, il grande architetto di Solimano il magnifico).

L’altro striscione pende dal palazzo di fronte che ospita il centro culturale della banca Yapi Kredi e ricorda i cento anni dalla nascita del poeta Orhan Veli (13 aprile 1914), morto a soli 36 anni nel 1950.

La mostra presenta fotografie, manoscritti, traduzioni e fogli del giornale culturale (Yaprak) del giovane poeta che rivoluzionò il mondo poetico turco introducendo il verso libero (contemporaneamente a Nazim Hikmet) e, sulla scorta dei simbolisti francesi, parlò delle cose più semplici e quotidiane, con una franchezza spudorata e una capacità di concentrazione lirica che, per paradosso, a un latinista potrebbero ricordare Catullo, oppure Orazio. Ad esempio, un botta e risposta da favola: Poesia con la coda. «Non siamo compatibili: sei di un’altra razza; / Tu sei il gatto del macellaio, io un gatto di strada. / Tu mangi da una ciotola di latta pulita, / Io mangio nella bocca del leone; / Tu sogni l’amore, io sogno un osso. /Ma neanche la tua vita è facile, / È un lavoro duro, fratello, / Dover scodinzolare tutti i santi giorni». Risposta del cagnolino del macellaio al gatto di strada. «Parli di fame, / Allora sei un comunista. /Allora sei stato tu a dare fuoco a tutti i palazzi, / Quelli di Istanbul, / Quelli di Ankara… / Che maiale che sei!».

Di alberi ancora non se ne vedono sul viale. Bisogna affacciarsi nel giardino seminascosto del consolato svedese, oppure entrare nella biblioteca del Centro di Ricerca per la Civiltà Anatoliche della Koç University (Amam) per vederne uno bellissimo, in una fotografia degli anni trenta scattata ad Antakya (Antiochia), sotto al quale si riposa un vecchio contadino, al centro di un gigantesco mosaico d’epoca romana da poco scoperto da una spedizione di archeologi di Princeton (e la mostra Antioch on the Orontes sarà presto leggibile solo su catalogo). Si vedono musicisti di strada, famiglie di profughi siriani che chiedono l’elemosina. In un ristorante accanto alla torre di Galata si può ascoltare l’interprete Ivon Cerrahoglu (che ha da poco tradotto in turco Mare al mattino di Margaret Mazzantini) dire: «Io come armena sono abituata a essere minoranza. Ora anche i miei amici musulmani devono abituarsi a essere minoranza in questo Paese» .

Chiunque legga, o scriva o parli è una minoranza, forse non solo in Turchia. E poi l’occhio vola fino al mare. Per vedere gli alberi, vale la pena tornare verso il parco Gezi, sperando che siano ancora lì, ricordando in volo i versi di Nazim Hikmet: «Vivere come un albero in solitudine e libero, / E come una foresta in fratellanza, / Questo è il nostro desiderio» (Bu memleket bizim, questo nostro paese) e, dialetticamente, quelli del maledetto Orhan Veli: «Il salice è un bell’albero. /Eppure, quando il nostro treno / Arriva all’ultima stazione / Vorrei piuttosto / Essere un fiume / Che un salice». (Seyahat, viaggio).