Questa calda e già tormentata estate 2022, questo mese di agosto che già gli aveva segnato la vita dall’infanzia quando visse sulla sua pelle la tragedia dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima sua città natale all’età di soli sette anni il 6 agosto 1945, si porta via all’improvviso il 5 agosto scorso Issey Miyake, una delle ultime grandi personalità del Novecento che hanno segnato nel pensiero e nei fatti non solo la moda, ma il design e il pensiero creativo e culturale giapponese e mondiale.
Il comunicato della sua morte all’età di 84 anni, per carcinoma epatocellulare riscontrato dopo un ricovero ospedaliero durato pochi giorni, arriva dai collaboratori più stretti del Miyake Design Studio e dell’Issey Miyake Group e lascia dietro di sé tanta amarezza e un grande vuoto in tutti coloro che, conoscendo l’uomo e la sua opera, sono consapevoli che non si tratti della perdita di un professionista, ma di una fonte inesauribile di idee, visioni e progetti capaci di andare oltre il loro tempo e la cultura d’origine.

Issey Miyake (ph Brigitte Lacombe)

PARLARE DI MIYAKE affibbiandogli l’epiteto di mito significherebbe renderlo intoccabile e lontano dalla realtà e relegarlo al posto dovuto a un mero marchio della grande moda, ma ciò sminuirebbe ciò che rappresenta e andrebbe in una direzione diversa da quella che è stata la verità del grande Miyake uomo, perché il suo carattere schivo e gentile con tutti, seppur riparato da una cortina di fidati collaboratori, curioso verso il mondo e verso le persone, anche in questi ultimi anni così complicati dalla pandemia, insieme alla sua determinazione e vivacità intellettuale, lo hanno sempre portato ad aprire collaborazioni e a lanciare nuove sfide locali e internazionali.
«Making things» (fare cose), riferito al processo del creare, è la parola chiave di ogni sua nuova linea, prodotto, progetto che negli anni hanno visto il coinvolgimento di altri designer, grafici, artisti, architetti, ingegneri, artigiani di fama ma anche meno noti, ricercati tra le maestranze di piccoli laboratori provinciali del Giappone. Ha sempre preferito parlare di costruire, rifiutandosi ad esempio di raccontare i suoi ricordi legati a Hiroshima, esperienza da cui si può pensare scaturisca forse tanta della sua energia vitale.

GLI ANNI SETTANTA coincidono con la creazione del suo studio a Tokyo e con l’apertura dello showroom a Parigi, città dove aveva studiato e da sempre suo punto di riferimento culturale. Sono anni in cui nasce il concetto di «Pleats Please» e la sua linea più nota che continua ininterrotta fino a oggi. Una linea che ha testimoniato da subito da una parte il pensiero avanguardistico di Miyake nell’ambito della sperimentazione tecnologica, ingegneristica, con l’invenzione di nuovi materiali, metodi di taglio e lavorazione del tessuto fino a far assumere e mantenere al capo piegature e forme senza necessità di stiratura e indipendentemente dal corpo che lo indossa – un concetto che porta ancora oltre con la linea 132 5 in cui si spinge verso la quarta dimensione, facendo dell’abito un origami indossabile – e dall’altra parte, ha messo in evidenza il suo stretto rapporto e con il mondo dell’arte e della grafica.
Tra le collaborazioni più ricercate quella con il design dirompente e pop di Tadanori Yokoo; con il design colto e legato ai classici dell’amico Ikko Tanaka che cita e riprende le stampe policrome di teatro kabuki del Mondo Fluttuante così come la pittura decorativa della scuola Ottocentesca Rinpa fino alla calligrafia; con i fotografi Yasumasa Morimura e Nobuyoshi Araki; fino alla più recente presentata in occasione del Salone del Mobile di Milano quest’anno con l’artista delle combinazioni numeriche Tatsuo Miyajima.

Poc King &. Queen – exhibition «Issey Miyake Making Things», Ace Gallery, NY 1999 foto di Yasuaki Yoshinaga

ACCANTO a queste creazioni che hanno in qualche modo abbattuto le barriere tra arte, design e moda, non si può tralasciare il progetto della lampada origami IN-EI (nome che si rifà al titolo del famoso Libro d’ombra di Tanizaki Jun’ichiro) in collaborazione con Artemide, e la grande opera realizzata con l’architetto Tadao Ando che, dall’anno della sua costruzione, il 2007, ha cambiato il volto di un’area di Tokyo prima occupata da edifici del Ministero della difesa.
Si tratta del 21_21 Design Sight, spazio espositivo e creativo tra i più interessanti a livello mondiale per la sua forma e l’impatto urbanistico, ma insieme a questo per la qualità sperimentale e interdisciplinare dei progetti proposti che sempre scavalcano le classificazioni di settore rendendo superflua ogni definizione e spesso anticipano, se non rispondono consapevolmente, le sfide sociali, educative, urbanistiche in atto e a venire.

ANCHE IN QUESTO CASO l’edificio si rifà a un concetto chiave di Miyake stilista, quello di A-POC, A Piece Of Cloth, secondo cui un unico pezzo di stoffa rappresenta il più primitivo capo che l’essere umano ha usato per coprirsi, quel minimo necessario a cui continuamente Miyake si è ispirato come concetto fondante per le sue creazioni. L’architettura stessa della 21_21 studiata con Tadao riprende la piega di un unico pezzo di tessuto, sviluppandosi in orizzontale sotto una larga falda del tetto.
Un luogo che ha voluto anticipare e, in qualche modo, ha saputo rispondere a un’altra questione culturale di carattere nazionale tanto cara a Miyake: quella della mancanza di un museo del design in Giappone. Ha agito, si è esposto in prima persona muovendo curatori, produzioni televisive e testate giornalistiche in quella che è diventata una campagna di sensibilizzazione nazionale affinché il Paese considerato da tutto il mondo tra i più interessanti e attrattivi produttori di design, grafica e packaging abbia il suo museo. Contiamo tutti che anche questo sogno diventi presto realtà sotto la direzione di Issey Miyake da lassù.