Benyamin Netanyahu conferma che lascerà entro il primo gennaio i portafogli ministeriali che detiene – sanità, diaspora, welfare e agricoltura – ma continuerà a ricoprire il ruolo di premier. L’Alta Corte di Giustizia ieri ha comunicato che può rimanere a capo del governo e questa decisione di fatto ha dato il via alla campagna di Netanyahu per le elezioni del 2 marzo, le terze in Israele in 11 mesi. Le due precedenti consultazioni, il 9 aprile e il 17 settembre, non sono riuscite a risolvere lo stallo politico che si trascina da un anno. Per due volte Netanyahu, leader del partito Likud, non è riuscito a formare una maggioranza di destra. E ha ugualmente fallito il suo principale avversario, il centrista e leader della lista Blu Bianco, Benny Gantz.

 

Con l’annuncio della rinuncia ai quattro ministeri Netanyahu prova a presentarsi come un politico rispettoso della legge e di quel sistema giudiziario che ha duramente attaccato dopo l’incriminazione per corruzione, frode e abuso di potere giunta il 21 novembre. Troppo poco per darsi una immagine diversa da quella di astuto manovratore politico che si è cucito addosso in questi anni e presentarsi all’appuntamento del 2 marzo come candidato premier senza macchia. Gantz batte ogni giorno sullo stesso punto: un premier incriminato non può guidare Israele. Il leader di Blu Bianco guadagna consensi, almeno nei sondaggi, ed è convinto che i guai del primo ministro con la giustizia peseranno parecchio sulle scelte degli elettori.

 

Netanyahu si deve guardare anche alle spalle, dai compagni di partito che lo considerano una palla al piede del Likud. L’opposizione interna non è tanto forte da metterlo in pericolo, ma cresce. Gideon Saar, il suo più accanito rivale, si sta preparando con il coltello tra i denti alla prima seria sfida in 14 anni, le primarie del 26 dicembre, alla leadership del partito. Ieri Saar ha avvertito che un Likud guidato da Netanyahu non sarà in grado di vincere e formare un governo dopo le elezioni del 2 marzo. «Se Netanyahu vince le primarie, non ci sarà un governo. Dobbiamo preservare la tradizione democratica di Likud», ha proclamato reagendo ai fedelissimi del premier che lo accusano di «tradimento».

 

Che Netanyahu si sia indebolito e rischi questa volta una sconfitta, cominciano a pensarlo anche a Ramallah. Prima delle elezioni israeliane del 9 aprile e del 17 settembre l’Autorità Palestinese (Anp) ha mantenuto un profilo basso, non ha interferito desiderando in silenzio l’uscita di scena del capo del Likud, ispiratore di tutte le decisioni prese da Donald Trump contro i diritti dei palestinesi. E tutto lasciava pensare che avrebbe fatto lo stesso anche per il 2 marzo. Invece ieri, magicamente, sono arrivate ai media israeliani dichiarazioni registrate lo scorso settembre in cui il presidente dell’Anp, Abu Mazen, sottolinea più volte l’importanza dell’affluenza alle urne degli arabo israeliani, i palestinesi con cittadinanza israeliana. Un invito esplicito ai palestinesi in Israele ad andare a votare in gran numero, per permettere alla Lista araba unita di conquistare più seggi (ora ne ha 13) e garantire il sostegno necessario, anche solo dall’esterno, a Gantz per formare un governo senza Netanyahu e il Likud.