Dei babbuini entrano e escono dall’inquadratura, sostano in essa, i rami degli alberi formano una sorta di alone nero da cinema muto che smussa i contorni dell’immagine. Inizia così, con un incipit di flagrante sconfinamento spazio-temporale, Isole, il nuovo film realizzato da Mario Brenta e Karine de Villers (vistonel concorso dei documentari internazionali al festival CinemAmbiente di Torino che si è chiuso da qualche giorno). Un poema, una preghiera laica rivolta al pianeta costituita da una moltitudine di brevi scene filmate in tante parti del mondo da più di settanta sguardi personali «raccolti e montati» (come si legge sui titoli di coda) dal cineasta veneziano e dalla filmmaker belga. «Frammenti di realtà, impressioni visive e sonore di e con» tutte le persone che hanno contribuito alla creazione di quest’opera sinfonica per immagini, musica, suoni. Nuovo capitolo della ricerca che Brenta e de Villers stanno portando avanti da anni, un’idea di documentario espanso e collettivo che trova nel montaggio la sua forma al tempo stesso finale e in continuo divenire. Un (fare) cinema che è piacere per gli occhi e stimolo costante alla riflessione su quanto ci circonda. Ma anche sguardo teorico sul senso del filmare e dello stare nel mondo, e al mondo, oggi.

TRA UNA VIDEOLETTERA dal mare svedese, donne arabe che mostrano le foto dei figli o mariti scomparsi, manifestazioni di protesta e di repressione (dalla Francia macroniana al Sud America), centrali tossiche, una donna che coltiva pomodori in piccoli vasi (una delle scene più commoventi proprio per la sua semplicità e per la passione espressa da quella persona anonima), il campo profughi di Shatila in Libano e un corridoio-tunnel che rappresenta un percorso obbligato per chi va e viene in una zona di Betlemme in Cisgiordania, un campo rom, boschi, montagne innevate, ecco apparire due cineasti indomiti come Tonino De Bernardi e Boris Lehman. L’età anagrafica (84 e 77 anni) contrasta con la loro necessità di continuare a sperimentare e inventare mondi attraverso le immagini. Quel che dice De Bernardi alla videocamera è sintesi del suo vivere la vita e il cinema: «È molto importante accettare la propria piccolezza. Io l’accetto. Però sono anche grande nella mia piccolezza, nel mio limite. Ecco, queste sono le parentesi (fa un gesto con le mani, ndr), io sono chiuso lì dentro, ma lì dentro sono grande, sono come Gilgamesh». Mentre il belga Lehman, con il suo volto antico e dolce, come quello di De Bernardi, davanti e nelle stanze della sua casa-studio-magazzino, fra bobine, giornali, manifesti dei suoi film, afferma che «C’est la fin». La fine forse di un praticare il cinema con i mezzi del passato, ma non la fine di una militanza, di una lotta che si deve ostinatamente perseguire per salvare, al pari dell’ambiente e del clima, dalla globalizzazione «opere e cineasti in pericolo», come si legge su uno striscione appeso su un muro della casa.
Mario Brenta e Karine de Villers invitano a compiere questo viaggio dove si è di passaggio (come ci ricorda ancora Lehman con la targa che ha posto all’ingresso dell’abitazione). E lo fanno dal 2010, data fondamentale per Brenta, che segna l’inizio della sua «seconda vita» filmica dopo uno iato di sedici anni. Era il 1994 quando Brenta diresse Barnabò delle montagne (a oggi il suo ultimo lungometraggio di finzione), che fu presentato in concorso al festival di Cannes.

UN FILM dimenticato (come altri del cinema italiano dei decenni più recenti), sparito dalla circolazione, mai distribuito in dvd, introvabile, in cui si respira l’odore della natura, delle alture, del freddo, delle nuvole, dei corpi che abitano spazi «scontrosi» e si lib(e)rano lievi in essi. Brenta aveva frequentato la scuola fondata a Bassano del Grappa da Ermanno Olmi Ipotesi Cinema. E se Olmi ha certo avuto un posto rilevante nella sua carriera, la poetica è tutta sua, originale, contadina e urbana (la Milano dei suoi primi due film Vermisat, del 1974, e Maicol, del 1988). Sarebbe bello rivederli ora quei film incastrati in tre decenni, uno per decennio. E confrontarli, farli dialogare con il nuovo corso del cinema di Brenta, sottrarli all’invisibilità.
Un corso, condiviso con Karine de Villers, dove il documentario (al quale Brenta si era già avvicinato negli anni Ottanta) diventa il mezzo per proseguire quella linea poetica interrotta, fino a farla «esplodere», al fine di ritrovarla intatta, nelle micro-narrazioni di Isole e non solo. Si pensi infatti a Il sorriso del gatto (2018), composto di scene girate in molti paesi europei oltre che in Marocco, Canada, Ecuador, film senza dialoghi (salvo le poche frasi lette da Marco Paolini), gioco di specchi tra luoghi separati che si riflettono e che, ancora una volta, il montaggio unisce trasformandoli in un «unico» luogo. Film, e cinema, dove perdersi e ritrovarsi, quello di Brenta e poi di Brenta e de Villers.

E SI TORNA a Isole, abitato da formati diversi e da una qualità dell’immagine che può essere tanto di alta quanto di bassa definizione. «A cosa servono le immagini»?, si chiede l’autore del contributo filmato in Ecuador. Sta preparando un film e rivendica il diritto e il dovere, di fronte a governi che vorrebbero proibire di documentare fatti che li criticano, di testimoniare «una realtà che non vorremmo mai dover riprendere eppure è proprio quello che bisogna assolutamente fare». Isole, nelle cui immagini trova spazio pure il vivere odierno al tempo della pandemia, ha l’andamento di una ninna nanna (come quella cantata da una voce di donna che accompagna alcune scene), di una dissolvenza/sovrimpressione (spesso usata) dentro la quale il cinema di Brenta e de Villers continua a vibrare.