Ci sono nella pittura di Isabella Staino la tensione del femminile, la suggestione simbolica del mondo animale, l’atmosfera domestica di un cascinale toscano o di una casa bianca affacciata sul Mediterraneo, ma anche la prepotenza del sogno, un immaginario mai domo che si esprime nelle sue tele e che le popola di Animanti. Questo è il titolo della mostra visitabile fino al 19 settembre alla Biblioteca dei Bottini dell’Olio di Livorno, città dove l’artista vive e lavora da 20 anni. Un percorso creativo che si riflette nelle opere esposte, con poche tele datate, astratte, rarefatte, i cui colori esplodono nei lavori successivi, realizzati perlopiù quest’anno.

C’è un racconto di Antonio Tabucchi «Isabella e l’ombra» a te dedicato e pubblicato da Vitoria Iguazu Editora, dove lo scrittore ti chiama «la bambina che pensa per colori». Davvero eri così?
Sono cresciuta in una famiglia di artisti, dove per farsi notare bisognava essere davvero bravi. Disegnare era del tutto naturale e anche naturalmente competitivo. La tata mi diceva che ero molto fantasiosa: vedevo volti nei nodi del legno, nelle pieghe delle tende. Non saprei dirti se ero «la bambina che pensa a colori», ma il mio lavoro è tutto basato sulla composizione, sul bilanciamento delle forme: i colori li apro e li metto, non sono mai premeditati. Il colore non ha pensiero. Per quanto riguarda il racconto, Antonio me lo dettò al telefono da Parigi; l’ombra del titolo è un mostro finito in un dipinto dieci anni dopo, nel 2013, una tela dove dipingo anche me stessa in maniera esplicita.

Nei tuoi quadri ci troviamo in un luogo a metà tra il sogno e atmosfere familiari, dove i materiali onirici si mescolano con l’elemento di realtà.
Mi piace moltissimo questo passaggio, per questo lo rappresento spesso. In un quadro c’è una stoffa fiorita, con ombreggiature realistiche, ma gli stessi fiori si staccano dal tessuto e iniziano a spargersi per la tela. Ho una doppia vita e il primo approccio alla tela è quello di ricordarmi che cosa ho sognato, anche se poi la pittura prende quasi sempre altre strade.

Le tele astratte in mostra risalgono a venti anni fa. Dove si collocano nella tua ricerca?
Quando inizio a dipingere, traccio solo forme approssimative sulla tela, quindi le bozze dei miei quadri sono ancora astratte. Il quadro attraversa vari passaggi nel quale si potrebbe dire compiuto: prima mi fermavo, adesso vado molto più avanti. Debbo dire che talvolta quando dipingo qualcosa di molto figurativo torno indietro, sento il bisogno di spezzare le linee, di liberare il gesto.

«Una certa cosa che era ’così’ può anche essere in un altro modo» dice Tabucchi parlando dell’arte. Mi sembra così anche per la tua pittura…
È un fenomeno fortissimo nella pittura: un pensiero che diventa un oggetto, la stratificazione materiale delle figure…a volte mi ritrovo a dipingere un elemento a lungo, a finirmi gli occhi su un dettaglio o una figura e poi a coprirlo del tutto, così, con leggerezza. Forse mi sembra del tutto normale poiché senza quel passaggio non arriverei a quello successivo. Lo vivo così. I quadri si possono guardare in controluce per scoprire queste tracce.

Sei una buona fruitrice di audioracconti e qualche anno fa hai dipinto un romanzo: è capitato con «Cristo si è fermato a Eboli» letto da Elio De Capitani. C’è qualcosa dell’oralità della letteratura che ti aggancia e innesca il processo di rappresentazione?
Quando ancora potevo leggere, era stato solo Dino Buzzati a ispirarmi tanto da disegnare i suoi racconti. Non tutto quello che ti piace può effettivamente ispirarti; tra l’altro io non ho un problema di ispirazione: quando ascolto qualcosa e ho voglia di rappresentarlo, devo essere abbastanza motivata da accantonare le tante altre cose che vorrei fare. Un’ispirazione esterna che soppianta la propria deve essere davvero potente perché mi allontana dai miei sogni e perché seguirla vuol dire comunque rispettare il lavoro altrui, confrontarsi con l’arte degli altri invece che scorrazzare nell’immensa pianura dell’ispirazione personale. Ascoltare i libri, far passare la letteratura dall’udito invece che dalla vista, è stata un’esperienza fortissima. Per Cristo si è fermato a Eboli ho telefonato a De Capitani per complimentarmi della lettura, e ho fatto 28 quadri, sperimentando anche nuove tecniche. Per non inquinare la potenza di quelle immagini raccontate, non sono mai andata in Basilicata, nei luoghi del confino di Levi.

Gli animali sono sempre stati presenti nel tuo lavoro, ma ora diventano Animanti: cosa significa?
È una parola composta-animali, amanti- ma è comunque la forma verbale del verbo animare, che significa portare alla vita e anche avere un’anima. Adesso che sono incinta ho due anime, e sogno per due.

Sei cosciente della loro carica simbolica degli animali quando scegli di dipingerli?
No, di nuovo non si tratta di una scelta premeditata, avviene in modo del tutto libero; è vero sono simbolici, ma io mi limito ad aprire la porta e farli entrare nella tela o nel disegno. Quando dipingo non c’è niente di premeditato. Negli animali di Animanti c’è un dialogo tra uomo e animale, quindi ho escluso per esempio i quadri dedicati alle scrofette sterilizzate di Cristo si è fermato a Eboli. Qua, come dice proprio De Capitani nel testo che mi ha regalato per questa mostra, «siamo tutti riconciliati».

Sono esposte anche opere non pittoriche…
Gli ossidi di ferro, già sperimentati in Cristo si è fermato a Eboli, sono stampe monotipo. È la prima volta che espongo disegni a china; entrambi sono sperimentazioni che vanno a braccetto con l’avanzare della mia malattia che mi rende ipovedente, per esempio vedo meglio il contrasto tra bianco e nero che certe sfumature. Allestendo la mostra mi sono comunque resa conto di avere un rapporto splendido con la pittura, una relazione di infinita tranquillità con questo mezzo espressivo.

Le donne sono le protagoniste della tua pittura, forse seconde solo ai loro sguardi, ai loro occhi.
Lo sguardo spesso mi serve ad amplificare il quadro: io vorrei che i miei quadri fossero finestre che si aprono su qualcos’altro. Vorrei camminare e vivere nei miei quadri. Il mio è un invito per lo spettatore a guardare dentro queste finestre, che suggeriscono un mondo molto più grande, un altrove da esplorare. Talvolta lo sguardo delle mie figure esce dalla tela, o le figure sono di spalle, e noi non sappiamo dove e cosa stanno guardando. Questo crea una profondità che mi interessa. In questi ultimi anni queste donne hanno cominciato a guardare noi, gli spettatori, con uno sguardo dritto che ricambia quello di chi le osserva. Nel rapporto con la natura, invece, in questi ultimi quadri lo sguardo si fa severo. Ogni sguardo un’intenzione, è l’elemento sul quale lavoro di più perché è lì dentro che si trova quello che veramente vorrei dire.

Nei tuoi quadri troviamo ambientazioni naturali, anche non realistiche, e altre molto concrete, domestiche, interni pieni di dettagli -pavimentazioni, tessuti- elementi che talvolta ci rimangono impressi anche quando sogniamo.
Le mie giungle e alcuni animali sono poco realistici, tendono all’immaginario, talvolta al fantastico. È la stessa bellezza di un ricamo o di una mattonella…spesso si rifanno alla sezione aurea che si trova in natura. Però io sì, dipingo esterni ed interni. Alterno ambientazioni domestiche, pavimenti parlanti che fatico ormai a dipingere, a situazioni naturali, marine o di fitta vegetazione, come nella tela che dà nome alla mostra.

In una sala dell’esposizione c’è un contributo audio di Elio De Capitani che debutterà con il suo «Moby Dick» a gennaio, a Milano. È l’inizio di un’altra collaborazione con l’attore?
Non saprei, è una storia piena di uomini! Ho disegnato un capodoglio, ma è visibilmente femmina e buonissima. Sono stata io a chiedergli di scrivere per questa mostra, per gli animanti: il suo testo indaga il contrasto tra il Moby Dick, sul quale lui sta lavorando e la mia pittura; c’è grande intesa tra noi, una collaborazione feconda, che spero possa continuare a svilupparsi.