Se ci si chiede sempre come va a finire un’opera, spesso poi alla sua fine non ci si rassegna. Non a caso, tra le tante diramazioni dell’intertestualità, la continuazione di un’opera preesistente è una di quelle che più invogliano gli scrittori e allettano il pubblico: la sua storia va dai casi grandiosi dell’Eneide e dell’Orlando furioso ai seguiti abusivi del Don Chisciotte e di Pamela (che spinsero i loro autori a pubblicarne di propri), fino alle innumerevoli nuove avventure degli eroi del mito e di quelli strappati ai loro testi d’appartenenza – i moschettieri, Frankenstein, il Dottor Jekyll e così via – e rimaneggiati a più riprese.

Pure in tempi recenti, si torna di continuo sui grandi romanzi del passato, spesso con sequel (e prequel, spin-off, riscritture e via dicendo) da strapazzo, come quelli riservati a più non posso alla produzione di Jane Austen, ma anche con sperimentazioni di maggior spessore: una di queste è l’ultimo romanzo di John Banville, Isabel (in uscita giovedì da Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini, pp. 388, euro 19,00), che prosegue uno dei capolavori di Henry James, Ritratto di signora.

Vezzi citazionisti
La vicenda di Isabel Archer – che negli anni Settanta dell’Ottocento passa dall’America all’Europa determinata a governare il suo destino, ma piomba nell’«abisso del convenzionale» sposando lo snob Gilbert Osmond, in apparenza dedito ai valori spirituali, in realtà avido solo di riconoscimenti e prestigio – lascia molti interrogativi in sospeso: la sua scelta di tornare dal marito, dopo un brusco allontanamento, può essere interpretata come rassegnazione definitiva ma pure come tappa di un percorso ancora aperto. Però, rialzare il sipario steso da James sul suo futuro è una sfida impervia: significa misurarsi con quella che Harold Bloom ha chiamato la «magnifica evasività» dell’autore, inoltrarsi in un mondo di finzione fitto di ambiguità e di impliciti, affrontare una complessità impossibile da sbrogliare quanto da riproporre. E in questo caso, la sfida non riesce del tutto.

La trama di Banville, che parte dalla fine di quella di James, espone il breve passaggio di Isabel a Londra dopo la morte del cugino Ralph, e immagina quindi suoi successivi spostamenti a Parigi, a Firenze e a Roma, costellati di incontri deliberati o fortuiti. Il romanzo rimane stretto a Ritratto di signora, fino a sottaciuti vezzi citazionistici (ad esempio, l’ampia menzione della pittura di Bonington, lì elogiata di sfuggita); sulla sua falsariga, indugia, ristagna, rinvia le svolte decisive, intreccia l’introspezione psicologica alla rappresentazione del contesto sociale; inoltre, dilata questa rappresentazione, mettendo in campo, attraverso alcune figure nuove (una matura suffragetta, un giovane giornalista), temi trattati in altre opere di James, come il femminismo nascente e i sommovimenti politici.

Un quadro troppo rigido
La narrazione è imbastita con verve stilistica notevole, sebbene discontinua: la scrittura, forse nel tentativo di echeggiare il suono di quella jamesiana, incespica in similitudini fruste (Isabel è paragonata a «un agnello preso in un roveto» e a «un piccione nella sua gabbietta di metallo»; il giornalista ha gli occhi verdi «come il mare in certe frizzanti giornate di sole a primavera»), e cade d’altronde in qualche anacronismo (è implausibile che personaggi dell’epoca usassero il termine «boyfriend» o il corrispettivo italiano «ragazzo» scelto dalla traduttrice); sa però in compenso schizzare, seguendo un’ispirazione più autonoma, sapide descrizioni dei viaggi, dei pasti, dei soffocanti rituali del mondo bancario, di tutta la prosaicità della vita materiale.

Tuttavia, il quadro di insieme risulta troppo rigido: non solo perché cede talvolta agli stereotipi, ad esempio presentando l’Italia unita (in effetti subito smaniosa di sprovincializzarsi e traboccante di fermenti culturali) come un mondo arcaico impermeabile ai mutamenti; ma specialmente perché nell’inseguire da vicino il suo ipotesto, finisce a più riprese per semplificarne le caratterizzazioni e forzarne le ellissi. La Isabel messa in scena appare ancora più ingenua di quella di James e priva del suo umorismo; il personaggio di Henrietta è involgarito, incupito quello di Pansy; Osmond e Madame Merle – in Ritratto di signora capaci di freddi calcoli ma anche di affetti e rimpianti genuini, e uniti da una reciproca dipendenza che in buona parte resta insondabile – sono raffigurati, secondo le parole della sorella di lui, come «due anime condannate», il cui castigo sarà «tormentarsi a vicenda». Un’ulteriore rivelazione sul loro passato, del tipo più fosco (che un po’ ricorda una leggenda su Pia de’ Tolomei), li trasforma da arrivisti in criminali; per giunta, il loro cinismo, in James sempre espresso in forme attenuate, sempre velato dal rispetto per le bienséances, qui esplode con virulenta, eccessiva chiarezza (in una delle scene madri Osmond deride Isabel per il suo «cuoricino puritano» e le chiede di mettere le «carte in tavola»).

E così il romanzo, che canzona i «fabbricatori di melodramma», scivola nel melodramma a sua volta: l’antagonismo tra bene e male, che, come ha argomentato Peter Brooks in L’immaginazione melodrammatica, in James è un desiderio irrisolto dei personaggi, ridiventa realtà effettiva. Banville, pur molto interessato, come altre sue opere dimostrano, all’instabilità dei confini tra innocenza e colpa, qui torna a separarle, delineando una classica antinomia.

Il destino in sospeso
Evita, comunque, di spingere questa antinomia fino a una conclusione edificante. Se Isabel riguadagna l’indipendenza, anche qui il suo destino resta in sospeso: sempre guidato da un intenso sforzo mimetico, il libro evita di discostarsi troppo dal romanzo di James; ma finisce così per brillare soprattutto di luce riflessa, peraltro sbiadendone la potenza. Il gioco intertestuale può aprire infiniti percorsi ma anche condurre in vicoli ciechi; e la creazione di secondo grado, pure quando azzardata da autori sofisticati, può quasi risolversi in creazione di seconda mano.