«Mi rivolto dunque siamo» diceva Camus. Beppe Viola era un giornalista sportivo che si rivoltava, a modo suo, ma si rivoltava. Ricorreva all’ironia, spesso era irriverente verso il potere. Alla Rai di corso Sempione a Milano, si occupava di sport, per la trasmissione nazional- popolare la Domenica Sportiva. Seguiva il calcio, famosa una sua intervista a un giovanissimo Gianni Rivera, a lungo capitano della squadra rossonera campione d’Italia e d’Europa sul finire degli anni ‘60 del secolo scorso, svoltasi su un tram di Milano tra gli operai che andavano a lavorare di primo mattino. Era entrato alla Rai nel 1961 e vi aveva lavorato fino al 1982, quando una maledetta domenica, era il 17 ottobre, proprio a San Siro dopo Inter-Napoli morì a seguito di una congestione, non prima di essere passato all’ippodromo, a due passi dallo stadio, dove puntava tutti i suoi guadagni, fino ad avere le tasche vuote.

Beppe Viola aveva collaborato con il regista Mario Monicelli, era anche un fine umorista, scriveva testi di cabaret, rappresentati da una leva di giovani attori che frequentavano il Derby, storico locale milanese (oggi occupato dai ragazzi del centro sociale il Cantiere) degli anni ‘60 e ‘70 dove si faceva cabaret e si allevavano giovani che avrebbero animato i palcoscenici e le pellicole proiettate nei cinema dei decenni successivi. Quella leva di attori alle prime armi, da Teo Teocoli a Paolo Villaggio fino a Cochi e Renato, spesso si ritrovava a casa sua dopo cena a tirar tardi tra battute fulminanti e bottiglie di whisky, ma causavano anche notti insonni alle piccole figlie, che non riuscivano ad addormentarsi per il fragore delle risate.

Beppe Viola con la sua sfacciataggine dava del tu a tutti, ma quando nel quartiere popolare di via Lomellina a Milano, dove abitava, lo fermava un operaio veniva preso da un pudore quasi reverenziale, agli operai dava sempre del «Lei». I lavoratori delle fabbriche li conosceva bene e con l’amico Enzo Jannacci scrisse il testo della canzone sulla vita di una operaia: «Vincenzina davanti alla fabbrica/Vincenzina il foulard non si mette più/ Una faccia davanti al cancello che si apre già/Vincenzina hai guardato la fabbrica/ Come se non c’è/ altro che fabbrica/ E hai sentito anche odor di pulito/ E la fatica è dentro là…Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui/ Sto Rivera che ormai non mi segna più/ Che tristezza, il padrone non c’ha neanche ‘sti problemi qua…».

Nei suoi servizi sportivi televisivi, Beppe Viola non mancava mai di fare riferimento al contesto sociale, come Osvaldo Soriano che intrecciava sempre lo sport con la società. Era chiaro, semplice, ironico e in certe occasioni televisive non mancava di sottolineare che si stava occupando di cose secondarie solo per la pagnotta. Si definiva un giornalista da marciapiede, quando fondò Magazine un’agenzia di notizie sportive per arrotondare lo stipendio, dette comunicazione tramite lettera a Franco Carraro, allora presidente del Coni e negli anni successivi sindaco di Roma, frutto degli accordi Craxi-Andreotti all’interno di una coalizione politica che allora si chiamava pentapartito (democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali). In quella missiva precisò che nessuno dei giornalisti assunti era raccomandato, venivano tutti dal marciapiede e la selezione era avvenuta sulla base della simpatia personale.

Forse il miglior quadro di Beppe Viola lo ha tratteggiato Gianni Brera all’indomani della morte: «Aveva un humour naturale e beffardo: una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io, soprattutto per questo lo amavo».

A quaranta anni dalla morte lo ricorderanno al Teatro Franco Parenti di Milano il 17 ottobre (alle ore 18.30 Sala Grande), gli amici e gli estimatori, tra loro anche Claudio Bisio, Diego Abatantuono, l’arbitro Paolo Casarin, Paolo Jannacci, Alessandro Rebecchi, Fulvia Serra, Fabio Treves, Giorgio Terruzzi, Paolo Maggioni, Andrée Ruth Shammah, la figlia Marina Viola e tanti altri.

Beppe Viola aveva una capacità straordinaria di cogliere l’umano tra i mille personaggi che incontrava, fino a confondersi con loro e a riderne. Oggi, in occasione dei quaranta anni della morte, non possiamo lasciarci andare alla nostalgia di una Milano che non c’è più, soprattutto quella di Dario Fo ed Enzo Jannacci, come fanno alcuni amici. La migliore eredità che ci lascia e che dovremmo fare nostra è come Beppe Viola, dai servizi sportivi per la Domenica Sportiva fino ai testi per il cabaret al Derby, sapeva rappresentare Milano. Per lui era tutto straordinariamente secondario e tutto maledettamente importante.

Come Gianni Mura, suo sodale amico e frequentatore di bettole, era attento al linguaggio sportivo, e già sul finire degli anni ‘70, dai quotidiani alle cronache televisive aveva colto i segni di un degrado oggi purtroppo divenuto inarrestabile. Nella lettera scherno a Franco Carraro ricordava che nella sua agenzia di notizie sportive non erano ammessi i giornalisti che usavano espressioni come «la palla attraversa tutta la luce della porta» oppure «il ginocchio è in disordine».

Per quella sua irriverenza, accompagnata da sottile ironia verso le mezze maniche della Rai di corso Sempione, Beppe Viola pagò un prezzo alto: non riceveva mai un aumento dello scatto di carriera, il suo stipendio era sempre uguale e le mansioni si moltiplicavano sempre più. Chiese ai dirigenti in una lettera se non fosse il caso di prendere la tessera della Democrazia Cristiana, il partito al potere che aveva occupato la Rai. In tempi difficili come questi di Beppe Viola teniamoci l’ironia e come faceva lui nel quotidiano rivoltiamoci.