«Le mie immagini spesso rispecchiano scene di degrado, ma sono sempre presentate in modo visivamente sorprendente. Ritengo che l’approccio estetico sia fondamentale nel coinvolgimento dell’osservatore, creando uno spazio di coesistenza tra opposti». Secondo il fotografo canadese Edward Burtynsky, protagonista della mostra all’M9, Museo del ’900 di Mestre (fino al 12 gennaio 2025, a cura di Marc Mayer), questa «ambiguità» percettiva è il vero grimaldello concettuale per scalfire la pigrizia dello sguardo, liberandolo dai suoi stereotipi.
Extraction / Abstraction, antologica che riassume oltre quarant’anni di carriera di Burtynsky, arriva per la prima volta in Italia (dopo la Saatchi Gallery di Londra) proponendo oltre ottanta fotografie di grande formato, tredici murales ad alta definizione, una experience di realtà aumentata e una sezione dedicata agli strumenti e alle fotocamere usate dall’artista.

Le sue fotografie, pur essendo profondamente reali, sembrano dipinti astratti: può dirci qualcosa sul procedimento tecnico e la sua «estetica»?
Ho sempre avuto un occhio di riguardo per la storia della pittura e della fotografia. Ho iniziato a sette anni a dipingere paesaggi con i colori a olio e, a 11, ho ricevuto la mia prima macchina fotografica, di cui mi sono subito innamorato. La considero uno strumento realista per eccellenza e mi sono anche appassionato alla sua capacità di rendere i dettagli a un livello straordinario quando le fotocamere di grande formato vengono impiegate nella produzione. Utilizzando fotocamere 4×5 e 8×10 e poi digitali di medio formato ad alta risoluzione, ho mantenuto una definizione sena oscillazioni nel corso di oltre 40 anni, gli stessi che hanno incluso la transizione dall’analogico al digitale. Tra le mie fonti d’ispirazione, posso citare il periodo dell’espressionismo astratto, che ha portato all’appiattimento dello spazio e a un «campo totale», che ho poi cercato nelle mie composizioni. Anche la veduta dall’alto ha contribuito a quell’appiattamento. La maggior parte dei miei lavori è caratterizzata da un’attenzione al colore, alla texture e da un senso della luce che può scaturire pure da giornate nuvolose: contribuiscono, infatti, a disegnare una tavolozza e una morbidezza nelle immagini che si accompagnano a dettagli nitidi.

Burtynsky in Belridge, California, 2003 foto di Noah Weinzweig (courtesy Studio Burtynsky)

Perché ha deciso di lavorare sui «processi di estrazione»: pensa che siano fra i principali imputati del cambiamento climatico?
Le industrie estrattive, come le miniere e le trivellazioni petrolifere sono tangibili processi che alterano la natura. Non sono solo visivamente impressionanti, ma anche fondamentali per comprendere le implicazioni più ampie dell’industrializzazione e del suo ruolo nella crisi climatica. Le attività di estrazione sono all’origine di significative emissioni di gas serra, concorrono alla distruzione degli habitat e all’inquinamento.  Inoltre, la deforestazione per la produzione di legname e l’espansione dell’agricoltura riduce, a sua volta, la capacità del pianeta di assorbire la Co2, aggravando il problema. Attraverso la fotografia, desidero testimoniare queste attività e le loro conseguenze, fornendo una narrazione visiva che evidenzi la portata e la complessità dell’impatto umano sull’ambiente. Catturando questi paesaggi alterati, spero di provocare una consapevolezza e una riflessione più radicale sulla nostra responsabilità collettiva nei confronti del pianeta. Il mio lavoro non si limita a mostrare le possibilità estetiche di questi ambienti trasfigurati, ma cerca di stimolare una discussione sulla sostenibilità e sull’urgente necessità di ripensare il nostro rapporto con le risorse naturali.

Lei indaga i paesaggi, ma in molti casi sono antropizzati o comunque fortemente modificati dall’intervento umano. Aspira a una sorta di Eden perduto?
Il concetto di «Eden perduto» è avvincente, ma le mie aspirazioni vanno oltre il semplice desiderio di luoghi puri, intatti. I miei paesaggi non documentano solo la perdita di bellezza «selvatica». Sono degli attivatori, facilitano una comprensione della complessa relazione tra la nostra specie e la Terra. Sebbene io viva una tristezza intrinseca nell’assistere al degrado ambientale, il mio obiettivo non è quello di idealizzare un passato che non potrà mai più essere recuperato. Al contrario, provo a sottolineare l’improrogabile necessità di un futuro sostenibile.

Questo accentuato interesse per la natura deriva forse dai suoi ricordi di bambino?
Direi di sì. Sono cresciuto a St. Catharines, in Ontario, circondato dallo splendore della Scarpata del Niagara e, insieme, dai paesaggi industriali della regione. Questa giustapposizione di luoghi incontaminati e sviluppo imprenditoriale ha lasciato in me un’impressione duratura. Da piccolo, ho trascorso molto tempo all’aria aperta. La mia esposizione precoce alle meraviglie della natura e alle realtà produttive ha finito per influenzare intimamente anche la mia visione artistica. In sostanza, i ricordi e le esplorazioni infantili hanno plasmato la mia fascinazione nei confronti della natura e della sua intersezione con noi esseri umani.

Le sue fotografie somigliano a monumenti (anche nelle loro dimensioni), sono «quadri» sospesi tra un’idea di bellezza e una catastrofe incombente: è così?
Sì, la grande scala delle mie immagini è intenzionale, progettata per evocare un senso di stupore e per attirare gli spettatori sui dettagli. Il concetto di bellezza, nel mio lavoro, non intende glorificare i danni ambientali, ma evidenzia l’identità paradossale dei paesaggi trasformati. Calamita lo sguardo e insieme sfida a confrontarsi con questioni che scottano. In sostanza, le mie fotografie fungono da monumenti visivi al concetto di Antropocene; servono a far riaffiorare il delicato equilibrio tra la ricerca del progresso e il bisogno di preservare il mondo naturale.

Esiste un progetto che l’ha coinvolta in particolar modo?
È senza dubbio The Anthropocene Project. Un’esplorazione sfaccettata che comprende mostre fotografiche, un lungometraggio intitolato Anthropocene: The Human Epoch, un catalogo illustrato, un programma educativo ed esperienze di realtà aumentata. Al centro, c’è l’impatto significativo e spesso irreversibile delle attività umane sul pianeta. Questo progetto ha portato i miei collaboratori, i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier in tutti i continenti (tranne uno), alcuni dei quali ci hanno messo alla prova con le loro condizioni fisiche e geopolitiche. Abbiamo anche seguito attivamente l’iter decisionale per la ratifica dell’epoca «Antropocene», la cui proposta è stata purtroppo respinta proprio lo scorso anno.

Lei è canadese, territorio che può ancora essere definito, per la sua gran parte, un paesaggio incontaminato. Cosa sta cambiando, in questi ultimi anni, nel suo paese?
Come canadese, apprezzo profondamente l’armonia della natura e la vastità paesaggistica, spesso inserita fra le ultime aree selvagge rimaste sulla Terra. Tuttavia, è importante riconoscere che anche il Canada sta vivendo cambiamenti ambientali assai rilevanti. Uno dei problemi più battenti è l’effetto provocato dalle industrie di estrazione delle risorse, come quella mineraria: il disboscamento e lo sviluppo delle sabbie bituminose. Queste attività minacciano la biodiversità e la salute ecologica degli ambienti naturali. Il Canada si sta inoltre riscaldando a un ritmo doppio rispetto alla media globale, con conseguente scioglimento dei ghiacciai, scongelamento del permafrost e mutamento dei modelli meteorologici. Tutto ciò ha notevoli implicazioni per gli ecosistemi, la fauna selvatica e le comunità, in particolare nelle regioni settentrionali, dove le popolazioni indigene fanno affidamento sulla terra per il loro stile di vita tradizionale.
Inoltre, l’urbanizzazione e l’industrializzazione stanno contribuendo alla perdita di habitat e all’aumento dell’inquinamento in molte parti del paese. Le città si stanno espandendo e questa crescita comporta una maggiore richiesta di risorse ed energia, mettendo ulteriormente a dura prova ciò che ci circonda. Nonostante queste sfide, in Canada si registra anche un aumento dei livelli di consapevolezza. Le comunità indigene, soprattutto, svolgono un ruolo cruciale nelle politiche per la conservazione, attingendo alle loro conoscenze ancestrali e al loro profondissimo legame con la terra.