Quando vengono rielaborati i disastri vissuti prevale spesso l’istinto di auto-conservazione viziato da un’umana tendenza a edificare il tragico in un’elegia del dolore che trasmuterebbe in cambiamento. Svetta l’idea che l’apice della tragedia serba in tiro la trasformazione. Eppure il dopo tragedia disillude spesso le aspettative e al varco del cambiamento alligna l’immobilità che lo ostacola. Del resto «l’uomo è una natura mancante» – sosteneva Arnold Gehlen – e in virtù di ciò si adatta e abitua a tutto, anche alle ingiustizia e alle brutture facendole diventare parti di sé, barattando un futuro migliore possibile con un presente qualsiasi. Dopo un terremoto che devasta ne resta un altro, passivo e silenzioso che ricompatta le macerie nel rimpasto delle nuove deformazioni.«Le baracche di ferro stagliate verso il cielo» di ieri diventano i famigerati prefabbricati pesanti dell’oggi che l’incuria politica lascerà affondare, per sempre, nelle periferie di domani.

Quarant’anni e non vederli è la mostra foto-giornalistica di Luca Daniele e Antonello Plati sull’offuscamento sociale di chi, in Irpinia, ancora oggi, subisce gli effetti del terremoto degli anni ‘80. Il progetto fotografico (40 foto in bianco e nero) «vuole – riferisce Daniele – raccontare la condizione di abusivi e ’terremotati doc’, invisibili, dopo 40 anni, agli amministratori e agli amministrati», nonostante per contiguità spaziale tra periferie e quartieri residenziali borghesi, ad Avellino, sia impossibile non accorgersi di loro».

Il progetto ha avuto inizio a settembre del 2019, ma la mostra, posticipata a causa delle restrizioni in pandemia, è approdata al Circolo della stampa di Avellino a inizio mese, dove resterà esposta fino al 31 luglio. Si prospetta anche la pubblicazione di un catalogo che raccoglierebbe circa ottanta delle fotografie scattate.
Daniele e Plati focalizzano l’attenzione sul capoluogo di provincia, Avellino, occluso a causa di una deficitaria strategia urbanistica che investe i mezzi di trasporto, anche nelle sue arterie territoriali, sepolta dal macigno della di-sidentificazione, nonostante non manchino i presupposti per agnizioni sulle considerevoli peculiarità. Il loro sguardo decentralizzato viene reindirizzato verso le periferie della città, luoghi spiazzanti e irrisolti che incorporano tutte le colpe di una storia urbana, post terremoto, fallimentare.

«A Quattrograna, a Bellizzi e Rione Parco, a Rione Volani, a via Morelli e Silvati e via Nicolodi, a via Amatucci e Via Penta e Picarelli, nelle case bianche dietro al centro storico di valle – riportano le didascalie della mostra curata dal giornalista Plati – la sostituzione dei prefabbricati pesanti l’hanno fatta solo a metà e l’hanno fatta male. Le case cadono a pezzi».
«I residenti – dice Plati – sono rassegnati, ma in alcuni casi ne fanno pure una questione di opportunità occupando abusivamente l’alloggio per poi sanare la posizione ed entrare nelle graduatorie dei legittimi assegnatari Erp. Per le amministrazioni comunali poi – aggiunge  – tenere le persone nei prefabbricati diventa un affare politico grazie al quale si alimenta il voto di scambio».

Nella storia di sempre, come ci ricorda il poeta irpino Domenico Cipriano (La grazia dei frammenti, 2020) «le crepe non sono nella terra» vengono scavate dagli abusi dell’uomo, dal passo padronale, da improvvide amministrazioni, dalla rassegnazione endemica .
Ma in un sociale sempre più de-fisicizzato e disintegrato, anche a causa di una pandemia che disancora dalle strutture collettive, Plati e Daniele hanno scelto di recuperare l’esperienza fisica degli spazi, entrando in rapporto con i luoghi e con chi ci vive. E la scelta stilistica della bicromia realistica che, sottolinea Daniele, «non si esaurisce mai in solo due colori», incastona un passato mai risolto nel presente, un tempo riscattato dallo sguardo fotografico e sostanziato dall’attenzione antropologica a far riemergere l’umanità sacrificata di fronte ad un futuro interrotto.
L’ottica sempre fissa del fotoreporter Luca Daniele che implica, come sottolinea l’autore, la vicinanza al soggetto, cattura i contrasti, le crepe, i riflessi del nulla negli specchi rotti accatastati, giocattoli incelofanati, raggruppati in cassapanche, abbandonati quando sottraggono troppo spazio alle persone. E tra una palazzina e l’altra, tombini rivoltati, rifiuti e spazzatura vecchia, perlustrata da topi, soverchiano il tempo sottratto alla vita di donne, uomini e soprattutto bambini colti dal fotografo nei sorrisi e «sottogesti» di una quotidianità indaffarata e asfittica «dalla quale si finisce per dipendere come se fosse una schiavitù».

«Sensibilità e abitudine – dice Daniele – e tempo da dedicare sono necessari per percepire l’atmosfera giusta che predispone al contatto e allo scatto amico, perché le persone fotografate devono fidarsi prima di cedere il volto che è anche un’anima. Abbiamo cominciato a confrontarci con alcune persone già conosciute che vivono nelle periferie, ma piano piano siamo entrati in contatto anche con molti altri, bisogna rendersi amici». E questo è uno dei segreti per realizzare quelle foto «incorniciate in modo intimo», quasi fossero «foto di famiglia», come le descrive la giovane regista avellinese Chiara Rigione che coglie in esse una valenza duplice: socio-politica e raffinatamente estetica. Rigione è autrice del cortometraggio Orfani del sonno, sostenuto dalla Cgil di Avellino che lo ha proposto a fianco della mostra fotografica citata e dopo diversi riconoscimenti, ora è tra i finalisti del concorso nazionale dell’edizione 2021 del festival «La Punta della lingua». Il corto è stato realizzato fondendo immagini di reportage del terremoto che colpì l’Irpinia nel 1980 con altre provenienti da tempi e luoghi lontani. Il lavoro corale e collettivo unisce le voci di una adolescente, di un uomo e di una bambina e si ispira ai versi ipnotici che Alfonzo Guida scrisse nel poema Irpinia dedicato alle sue memorie del terremoto

L’adattamento tra la persona, il gruppo e il suo luogo in una comunità come quella irpina che subisce ancora gli effetti sociali dell’evento sismico degli anni ‘80, vissuto e raccontato spesso come un «naufragio esistenziale», implica quel dialogo continuo con le memorie, le voci, le ombre e i bisogni che, i tre giovani irpini citati, hanno saputo cercare. La riscrizione delle tracce, nello spazio fisico e nella dimensione dinamica del ricordo, li hanno condotti a ripercorrere il presente perduto nel passato, cominciando a ridecifrare il taccuino di viaggio macerato della comunità naufragata.