“Running as fast as they can, Iron Man lives again» cantavano i Black Sabbath negli anni di Woodstock. L’Iron Man della Marvel si chiama Tony Stark, è un playboy miliardario che ha trovato il suo posto nel mondo disegnando scudetti di follia e tecnologie militari, pezzi di carbonio e metallo, per lo più, che valgono quanto una bottiglia di liquore, fino al punto di sentirli battere e scalciare sotto la sua pelle. E contano ben più di un microchip «hi tech» per combattere l’obesità o delle dichiarazioni di Paolo Bernini, neo-eletto alla Camera dei deputati con il M5S, sulle sperimentazioni umane.

La verità è che, al terzo capitolo della saga Iron Man, Tony Stark non ha mai in mano qualcosa di solido, se non quel cuore elettromagnetico impiantatogli in Afghanistan. È curioso il modo in cui l’attore Robert Downey Jr. tracci i luoghi dei desideri (perfino gli appuntamenti con la segretaria Pepper/Gwyneth Paltrow) e il suo ritorno alle origini come se fossero una dimensione a doppia faccia, dove la macchina, la plastica, l’irrealtà e la simulazione delle emozioni passano attraverso il crocevia del corpo, ormai inserito in un quadro molto più ampio di libertà e necessità, un corpo-spettro, co(s)mico. Una vera e propria tuta. Un’industria!

«Ti amo, sono fortunato. Ma, tesoro, non riesco a dormire», dice Stark a Pepper. Gli incubi, le inquietudini – dopo la condivisione di una semi-fine del mondo in The Avengers, da cui Iron Man 3 riparte – sono il manifesto di guerra più evidente e inaudito. La prova che Tony Stark non è un eroe, ma un prigioniero-oggetto («Proprio perché le cose erano cose, io potevo sforzarmi di sentirne il funzionamento, il pensiero che c’era dietro, di avere una contemporaneità mediata dagli oggetti, unarelazione, un mio adeguamento al tempo di queste cose; per ogni cosa c’era una nomenclatura, per ogni cosa c’era un manuale, e nei manuali c’era scritto che cosa dovevo fare, come dovevo stare perché quella determinata cosa funzionasse», In questa luce, Daniele Del Giudice, Einaudi).

Iron Man 3 è forse il primo film Marvel/Paramount/Disney corredato di un’ironia dolente, non solo fisica, nel quale il supereroe naufraga nel compiacimento sino a diventare una sorta di illusionista (di se stesso), un Houdini spettrale, capace di navigare docilmente in un mondo di gauchos ballerini e di rodeo, senza (voler) vincere davvero le costrizioni robotiche del proprio corpo. Il film di Shane Black (Arma Letale, Scuola di Mostri) è anche il primo film d’azione che la rivoluzione la fa in casa: un fumetto domestico, mai completamente sciolto e tagliente, dove la parola old-fashioned «vendetta» diviene la fortificazione privilegiata da cui osservare gli attaccanti errabondi. In questo caso, il terrorista del terzo Iron Man, il Mandarino interpretato da Ben Kingsley, ritrova le radici dell’America nascosta dallo strazio della maratona di Boston, e saluta il suo nemico presentandosi (letteralmente) alla porta di casa.

«Home», casa: il grande tabù americano, la trincea oltre la quale esiste soltanto alienazione. La sequenza dell’attacco alla magione di Stark a Malibu rappresenta l’epilogo del cosiddetto «Stark Modernism», il punto di non ritorno di Tony Stark, casalingo bruciato a metà tra L’età inquieta di Bruno Dumont e Le Locuste di John Patrick Kelly. Anzi, un flusso di punti di non ritorno che tocca anche Scanners, con i corpi pronti ad esploderedel progetto Extremis di Aldrich Killian (Guy Pearce), e la figura di War Machine (vero nome: Jim Rupert «Rhodey» Rhodes) incarnato da Don Cheadle a mo’ di prematura Priscilla biologica.
Il coito e il potere del corpo di Stark permettono un’evoluzione e un trapasso che molto hanno a che vedere con il background cattolico dell’universo Marvel. Anche Gwyneth Paltrow dimostra più forza da sola, in reggipetto, tra le fiamme: una Madonna incessante, salvifica, materna, indifferente alle paure della persona che ama o che è costretta a portar in grembo. E Stark lo sa bene: della salvezza infinita non si ride più.