Quarantanove come i racconti di Hemingway (e altrettante vittorie, di cui quarantatre prima del limite) furono i match di colui che forse non è stato il più grande e nemmeno il più forte nella storia della boxe ma certamente il più regolare, di un’efficacia persino disarmante, nella categoria dei pesi massimi. La vicenda di Rocco Francis Marchegiano in arte Rocky Marciano (Brockton, Massacusetts 1923- Newton, Iowa 1969) si sviluppa nei modi tipici di un proletario bianco – e di origini italiane, il padre è abruzzese di Ripa Teatina, la madre del beneventano – che per il tramite del pugilato conosce il riscatto sociale e il benessere economico.

Oggi Marco Pastonesi torna a raccontarne la storia in un libro di taglio decisamente originale, Rocky Marciano Blues Una storia in quindici round e dodici battute (66THAND2ND, «Vite inattese», pp. 161, euro 17,00) dopo avergli dedicato il 1° settembre una puntata di Wikiradio a Radio3, ora accessibile in podcast su Raiplay sound, per il centenario della nascita del pugile. Pastonesi alterna le stazioni della ascesa di Marciano ad altrettanti break dove la musica jazz e il blues che ne è l’anima costituiscono la colonna sonora.

La figura di Marciano si interpone fra l’era di Joe Louis, che batté nell’ottobre del 1951 mettendo fine in un incontro drammatico alla carriera del «Bombardiere nero», e l’interregno dei Patterson e dei Liston che prelude, già all’alba degli anni sessanta, all’età aurea di Cassius Clay/Muhammad Alì. Operaio, soldato nella seconda guerra mondiale e avviato alla boxe sotto le armi, la carriera di Marciano è breve, bruciante, e sta tutta fra il ’47 e il ’56 quando il campione si ritira imbattuto dopo avere messo k.o. una leggenda vivente, il più longevo tra i campioni pluricategoria, quale Archie Moore nel ring prediletto che, insieme con il Madison Square Garden, fu sempre lo Yankee Stadium di New York. A scorrere oggi il tabellino, è chiaro che Marciano non si è mai battuto contro fuoriclasse assoluti (a parte un Joe Louis di età oramai veneranda) ma è evidente che continuò a disfarsi con micidiale regolarità di sfidanti di caratura sempre ragguardevole e basterebbe il nome di Jersey Joe Walcott, pugile coriaceo che Marciano sconfigge una prima volta a Filadelfia nel settembre del ’52 per k. o. al tredicesimo round, divenendo campione del mondo, e torna a battere a Chicago otto mesi dopo liquidandolo alla prima ripresa ma con un colpo tanto inapparente da suscitare scandalo.

Vuole la vulgata che Marciano sia rimasto sostanzialmente estraneo alle ipoteche degli allibratori e al giro di mafiosi capeggiati da Frankie Carbo, plenipotenziario a New York della potentissima famiglia Lucchese. Si stenta tuttavia a crederlo perché quando esordisce fra i professionisti, maggio del ’47, la boxe non è più quella primordiale raccontata da Jack London e dallo stesso Hemingway ma piuttosto è il racket di cui dice con vigore epico Body and soul (Anima e corpo, 1947), il film di Robert Rossen interpretato da John Garfield (che sullo schermo avrebbe potuto essere un Marciano perfetto) e sceneggiato dal grande Abraham Polonsky, già membro del Partito comunista americano e blacklisted all’avvento del senatore McCarthy.

Non è così ovvio definire la fisonomia pugilistica di Marciano e infatti Pastonesi nell’incipit lo fa per esclusione: «Non aveva gioco di gambe. Non aveva varietà di colpi. Non aveva l’arte della difesa. Non aveva stile, classe, eleganza, talento. Non aveva fantasia. Non aveva l’altezza né l’allungo. Non aveva neanche la pelle nera dei più grandi pesi massimi di quell’epoca».

E in effetti era tutt’altro che un fenomeno fisico, 1 e 78 di altezza per 85 kg. di peso, massiccio e atticciato senza essere corpulento, guardingo e ingobbito nella postura, la sua boxe era cruda e disadorna, il suo colpo pressoché esclusivo era il diretto destro che talvolta poteva variarsi in hook: solo relativamente tardi Marciano imparò a utilizzare il sinistro, specie in combinazione con il destro, ma non trascese mai il più semplice degli uno-due.
Il suo era un destro a propulsione, liberato recta via (si dice «treno» in gergo) da un cortocircuito di gambe/spalla/braccio. Non aveva il cosiddetto colpo d’incontro, perché poco mobile e comunque troppo rigido di gambe e di schiena, e però possedeva il destro demolitore, tanto più efficace se portato alla mascella o certe volte anche sotto la cintura perché Marciano, senza essere mai platealmente scorretto o strafottente, era tutt’altro che un pugile integerrimo nel corpo a corpo e nell’arte del clinch dove eccelleva e da cui usciva mulinando la testa e sferrando durissimi colpi, pure se spesso non visti, appunto sotto la cintura.

Ciò non toglie, ed è forse il suo tratto decisivo, che Marciano innanzitutto fosse un grande incassatore né deve far velo la regolarità spettacolare del suo cartellino o la trafila dei k. o. più o meno istantanei perché egli usciva dai match con il volto sempre tumefatto, le ciglia spaccate, la maschera di sangue. In realtà subiva molto più di quanto non sapesse offendere ma fatto sta che il suo destro a un certo punto se ne usciva fulminando senza mercé.

Il cantore secolare della boxe, Nat Fleischer, nella classica Storia dei pesi massimi (Edizioni Tris, 1958: nella sua pur accurata bibliografia Pastonesi non la menziona) intitola il penultimo capitolo Un distruttore italo-americano e in questo modo ne illustra la boxe: «Marciano possedeva in grande misura la fredda determinazione e la disperata possibilità di vincere abbattendo, che gli altri, indubbiamente, non avevano pari a lui. Rocky aveva una straordinaria fiducia nella potenza dei suoi pugni.

Per lui non esistette nemmeno il problema di una eventuale sconfitta, anche se molte cose sul piano tecnico potevano lasciarla supporre. Era una magnifica macchina da pugni». Infatti, all’autodidatta che di fatto non ebbe maestri nemmeno si riconoscono eredi se non forse un Sonny Liston, per il destro letale, o l’altra esponenziale macchina-da-pugni come Myke Tyson. Praticamente senza più avversari, si ritirò a trentatré anni e, dopo un decennio trascorso a portare in giro il proprio mito tra comparsate e spettacoli di beneficenza, morì in un incidente aereo a soli quarantasei.

Aveva resistito alla tentazione di tornare sul ring, che invece è tipica degli ex campioni. Se al suo mito francamente fa torto la serie cinematografica con Silvester Stallone (presto sgangherata dopo un passabile avvio, nel ‘76, con il Rocky a firma di John G. Avildsen) Marciano fu un uomo all’apparenza così semplice da risultare paradossalmente imperscrutabile e infatti si esce dal libro di Marco Pastonesi con la netta sensazione di avere incontrato, dietro lo stereotipo del campione, un uomo pervaso da una misteriosa disciplina interiore.