Nata nel 1911, Irene Brin fu eclettica osservatrice di Cose viste, di Usi e costumi istantaneamente fotografati con lo sguardo, e impietosamente sbalzati a rilievo quasi tangibile sui tasti delle sue Remington o Olivetti di turno. Una famosa foto di Karen Radkai la ritrae sostenuta da cuscini, spalle e volto incorniciati dalla testiera di un bellissimo letto barocco, macchina da scrivere poggiata su un tavolinetto da prima colazione. Oltre che narratrice, Irene Brin fu traduttrice, gallerista, critica d’arte e di moda, fashion editor e soprattutto – quale «Rome editor» per «Harper’s Bazaar» dal dopoguerra in poi – instancabile mediatrice di stile fra Italia e Stati Uniti. Ed è grazie a quest’ultimo aspetto della sua personalità che, nell’attuale clima d’interesse per la cultura della moda italiana, il «nome» Brin oggi attira attenzione.
Il recente Il mondo Scritti 1920-1965 (a cura di Flavia Piccinni, Atlantide, pp. 320, € 30,00) offre una silloge di sue prove narrative risalenti agli anni quaranta, tra le quali, sofisticata e rivelatrice, spicca la raccolta Le visite, riproposta qui per la prima volta integralmente dopo la prima edizione (Partenia 1945). Peccato che resti esclusa la Irene Brin giornalista, perché alcuni degli articoli da lei pubblicati su quotidiani, libri e riviste escono dalla cronaca occasionale e tracciano le linee fondative di quella che diventerà la moderna attenzione critica allo sviluppo della moda italiana.
L’interesse per il porsi della figura umana, e soprattutto di quella femminile, nello spazio sociale – non per niente fu studiosa di Toulouse-Lautrec, al quale dedicò due libri – è il tratto unificante di questa poliedrica scrittrice, che sotto lo pseudonimo di «Contessa Clara» fu anche, a partire dal 1952, autorità regolatrice di un singolare Galateo. Dalle pagine della «Settimana Incom», rivista illustrata derivata dall’omonimo cinegiornale, la «contessa» insegnò le regole di un nuovo bon ton, adeguato a quel meraviglioso dopoguerra «aperto», scrisse Flaiano, «a tutte le speranze». All’Italia che si affacciava incerta e affascinata sul mare dei nuovi stili di vita e di consumo provenienti dagli Stati Uniti, il Galateo della Contessa Clara offrì spregiudicatezza e pruderie, compassionevole ironia e convinta propaganda conservatrice – il tutto condito di malcelata misoginia.
Ligure di nascita ma di madre viennese, nutrita dell’internazionalismo fatto in casa trasmessole da un mondo povero di contante ma ancora abitato da nannies e istitutrici d’antan, la Contessa rieditò, adattandola a quegli anni di transizione, la formula della napoletana «Miseria e nobiltà». Miseria postbellica e brandelli di un’aristocrazia a parole destituita d’autorità, ma già televisivamente favolosa nei titoli. Realizzò così il suo maggior successo di pubblico. Anonimamente, è vero, ma comunque anche «Irene Brin» non fu che uno dei suoi molti pseudonimi: all’anagrafe, figurarsi, non risultava che una qualunque Maria Vittoria Rossi! E poiché chiamarsi «contessa» in Italia faceva colpo, al pari di uno dei suoi personaggi, Irene Brin «contessò». «La vostra cucina non sembri una clinica! Né un antro, né una fucina», sentenziò con la voce imperiosa di quella Camilla Cederna che non fece in tempo a essere. Tutt’e due erano nate nel 1911, ma Brin morì nel ’69, appena affacciata su quel nuovo di cui aveva intravisto la portata nel corto circuito Roma-New York via «Harper’s Bazaar».
Oggi chiunque sa che all’organizzazione della cucina è legato uno stile del ricevere, e dunque del socializzare, ma all’epoca parve un gioco, o persino uno snobismo, che la contessa lo proponesse arredato di «un bel lume di cristallo tintinnante», o di quadri d’autore sottovetro «perché il fritto non li appannasse». Ma non mancò chi colse il senso riposto di quell’invito a mescolare i ruoli. Eliminata la «servitù», la padrona di casa era professionista, esperta di cucina protofusion, dietologa. Storica di quella «bellezza» americana che imponeva sacrifici anche cruenti. Se all’indomani della prima guerra mondiale – un’epoca da Brin conosciuta nei racconti di amiche e parenti più anziane – «tutte mangiavano insalata ed aranci, senza olio, senza zucchero, (…) tutte parlavano di diete difficili da seguirsi alla mensa familiare», e il massimo della crudeltà consisteva nello strapparsi «con frenesia» le sopracciglia per poi ridisegnarsele con la matita, all’avvicinarsi della seconda la chirurgia estetica già mieteva le sue vittime. Tagliava nasi, eliminava pance, rigonfiava seni: il tutto con rapidi taglietti e suture. Questo accadeva ovviamente a Los Angeles, o a New York, dove signore chiamate Helena Rubinstein o Elizabeth Arden già possedevano «interi palazzi» per ospitarvi «i grandi della terra». È chiaro che qui siamo alla disperazione. Alla parodia come ultima àncora di salvezza a una «Bellezza» che si vuole democratica. Questa American Beauty che oggi fugge via, nel 1940 muoveva i primi passi. E lei, Irene Brin, le dedicava non uno, ma addirittura due, dei suoi brevi concentrati di parole – quasi figurine Liebig della vita, che le esperienze dei decenni successivi avrebbero disciolto con i loro flussi e riflussi.
Della resistenza alla marea montante della bellezza «americana» le signore e signorine, più o meno titolate, che popolano i racconti e bozzetti di Irene Brin sono soltanto l’altra faccia. Sono deliberatamente scelte come le superstiti di un’altra, più antica, ormai inefficace, e perciò sconfitta crudeltà. Intese come entità ideali, «Roma» e «Bordighera» definiscono il rettangolo aureo entro il quale è compreso un piccolo mondo separato, ombra del primo più grande. Ma gli ingredienti vi sono tutti, presentati su un palcoscenico di pupi. In «Le farfalle», una tra le più struggenti tra Le visite vi è il cinema, ripreso tra Miseria della domesticità (la signora Fanfan, seconda Moglie già tradita ma incurante, assorta come è nel grande Saggista Inglese, che dalle «tartine decoratissime» le spezza briciole di cultura) e Nobiltà della professione (il Grande Regista squattrinato in cerca di ispirazione e nostalgico di un piatto di «pastasciutta», il Grande Attore, la Grande Attrice, la caccia al «buon soggetto»). E anche i luoghi sono quelli giusti: l’appartamento «bellissimo», di design, con l’office d’ordinanza e i cuscini sul divano del colore imposto dall’architetto, e poi Via Margutta, Cinecittà, e «un cappello cardinalizio in funzione di lampadario». Siamo al presagio di quella Dolce vita che avrà quindici anni dopo il suo canto del cigno. All’alba di quella Hollywood sul Tevere non ancora così battezzata ma già riconosciuta nelle sue linee essenziali.
All’altro estremo vi è la signorina Dafne di «Le zitelle» che, ombra della stessa Brin, «abita Bordighera», ed è attiva presso «Vogue» e «Harper’s Bazaar». Ogni sera la serva Eleonora le posa sulle ginocchia la macchina da scrivere e sul comodino il bricco della cioccolata fumante, e quella comincia una delle sue storie di gusto francese, «suranné et delirant». Si avverte l’odore invernale della minestra di zucca, la fragranza dei cibi speziati ed esotici che Dafne farà servire agli immancabili ospiti venuti da lontano. Ma occorre che le due «vecchie vergini» si scambino i ruoli perché infine il senso di quel loro rapporto emerga. Pur osteggiata, Eleonora sposa Pierre, e per sostenere lui anziano e subito incurante, si rifà pescivendola. Non sa che, in sua assenza, Pierre si reca da Dafne e, per cento lire a puntata, le racconta tutto del loro amore. La semplice, domestica storia – quasi un’autobiografia per interposta persona, avrà un enorme successo. Aleggia il fantasma di Gertrude Stein. Non Autobiografia di Alice B. Toklas, ma Un uomo di settant’anni si chiamerà la storia delle «zitelle» Dafne e Eleonora.