Inconfondibili e mai superflue le parole di Irene Brin. Racconti, pensieri, articoli, pratici e maliziosi consigli di bon ton e bellezza, ritratti, bozzetti e cammei di donne famose e coppie regali. «Cose viste» e trascritte, pubblicate tra il 1944 e il 1965 e che sono ora raccolti in Il mondo (a cura di Flavia Piccinni, Edizioni Atlantide, pp. 314, euro 30). Un libro di alta sartoria, solo 999 copie numerate e dalla fattura ricercata, come si addice a una regina dell’eleganza e della raffinatezza. La prestigiosa fotografa Karen Radkai la immortalò, nel 1951, appoggiata alla testiera del suo letto in stile neorinascimentale. Quattro fili di perle al collo, la sua macchina da scrivere tra le lenzuola candide e uno sguardo atono, vagamente malinconico.

IL SUO NOME ANAGRAFICO è Maria Vittoria Rossi, ma non se ne curò affatto. Si dedicò invece a nutrire la sua esigente identità «moltitudinaria» e fu, a seconda dei tempi e delle circostanze, Mariù, Marlene, Oriane, Geraldina Tron e Maria del Corso. Vida, Ortensia, la puntutissima, ironica e aristocratica Contessa Clara Ràdjanny, e anche la temuta Madame d’O, fustigatrice inflessibile della civetteria di ogni foggia e rango. Fu giornalista, scrittrice, mercante d’arte, traduttrice. Sempre pronta a nuovi dislocamenti, tra le pagine di un libro o del mondo. Insuperabile nell’arte di non lasciarsi situare su una scala graduata di competenze, di ruoli. Irregolare ed eccentrica, non comprendeva, come pochi fanno e forse a causa della sua «poetica» miopia, le geometrie dei bordi e dei confini.

LA SUA VITA fu, con pochi inganni e senza alcuna ingenuità, una ricerca, ostinata e metodica, del bello. Un esercizio, dunque, di disciplina e di libertà insieme. Una pratica sorvegliata che è servita a schivare il miraggio delle categorie astratte, dell’estetismo formale, e a percorrere il ben più accidentato sentiero dell’esperienza del bello, dove la conoscenza sensibile del mondo gioca a mostrare la profondità delle apparenze e l’inusuale intensità dell’artificio estetico in ognuna delle sue innumerevoli e cangianti incarnazioni.
«Io sono una storica del costume, non una cronista», ha detto di sé Irene, dichiarando così la natura storicamente ancorata del suo oggetto d’amore e di esplorazione. Il costume: un organismo vivente dal metabolismo complesso. Un concetto variabile, spurio, mobilitato da correnti difficili da decifrare – interessi, bisogni, desideri, visioni, libertà, vincoli – che tuttavia si presenta come uno scenario piuttosto uniforme di ritualità consolidate, di abitudini e stili di vita che sono cardini e cerniere della società.

MARIÙ APPARE dotata, oltre di che di notevole talento e della necessaria e appassionata curiosità, anche di sofisticati strumenti di lettura per captare quello che ci muove e ci orienta nelle relazioni sociali, nel rapporto con lo spazio che ci circonda, nel contatto con la percezione di noi e degli altri. Un’impresa che ha condotto talmente seriamente da non abbandonare mai quel suo tonificante e prodigioso registro ironico, la battuta tagliente e sagace, mai leziosa e senza smorfie.

DAL PRIMO DOPOGUERRA fino alle soglie della grande rivoluzione del 1968, non smise di confezionare «modelli di carta» pronti per essere indossati anche postumi, di descrivere lo stile made in Italy prima ancora che trovasse le gambe per emigrare nel mondo. In scampoli di pura intelligenza, ecco affiorare dalle pagine appena pubblicate, le adolescenti della Prosperity, travolte da un «malinconico furore di vita» e da una travolgente ondata di accessori per agghindare «esistenze violente e improvvisate». Eroine della modernità, «signorine» in pantalone, ossessionate dalla dieta e dalla giovinezza, nelle più svariate versioni offerte dall’industria del make up – les garçonnes, le vamp, le sportive – «rappresentanti perfette di tutto il complicato e segreto mondo borghese che in un decennio trovò modo di riformarsi».

Ne Il guardaroba dell’uomo modesto la Contessa Clara ci regala un’istantanea fuori dal tempo. Siamo tra le strade di Londra ancora ingombre di macerie, nel lunghissimo dopoguerra inglese, dove si materializzano, fianco a fianco, «il Montgomery, su logori pantaloni di flanella e consunti maglioni sportivi» e «il vestito e il cappotto attillati e scuri». Due abiti (o meglio due uniformi) che vestono uomini diversi non per casta o età, ma per ideologia. «In Italia il contrasto è stato ugualmente notevole, ma assai più verboso.
I giovani comunisti si corazzavano nelle loro tute e nelle loro teorie; i giovani liberali riesumavano colletti rigidi: se li rinfacciavano vicendevolmente, e solo le madri avrebbero potuto stabilire, conti alla mano, che le giubbe a vento dei dinamitardi (foderate di pelliccia, assortite a calzoni di velluto e a mocassini morbidi) costavano quanto i paltò classici e le classicissime flanelle dei conservatori». Una chiosa che si addice assai bene alla scatto di Irene? Vedi alla voce Conformismo del Piccolo dizionario dei dubbi ricorrenti: «costituisce uno dei peggiori fastidi della nostra epoca».