Credo sia del Wilde l’aforisma che dice non esservi al mondo cosa più seria dell’essere capaci di un po’ di frivolezza. La verità di questo elegante paradosso sembra essere provata dalla biografia di Irene Brin (1911-1969), che un libro miscellaneo, Irene Brin, Gaspero del Corso e la Galleria L’Obelisco, (a cura di Vittoria Caterina Caratozzolo, Ilaria Schiaffini e Claudio Zambianchi, pp. 314, euro 40,00, edizione Drago), ripercorre oggi a partire dai suoi esordi letterari come giornalista.
Irene Brin al secolo faceva Maria Vittoria Rossi (il nome glielo scelse Leo Longanesi) e discendeva da una ricca famiglia ebraica di Gorizia. Il cosmopolitismo, la predisposizione alle lingue – fu pregevole traduttrice di testi inglesi e francesi – potevano dirsi dunque retaggi mitteleuropei, che ella tuttavia seppe affinare nella costante pratica del mondo. Anche il suo scetticismo ironico e salottiero era, in una certa misura almeno, la personale pronuncia di un dialetto materno.
Con queste qualità non si fatica a comprendere perché dovesse piacere subito a Longanesi, il quale nel 1937 le offrì di scrivere sulle pagine dell’«Omnibus». Alcuni dei suoi articoli sono stati raccolti, in tempi non più tanto recenti, da Sellerio nell’antologia Cose viste (1938-1939). Vi si possono leggere descrizioni della clientela che era solta ritrovarsi al Caffè Camilloni di Roma su via Nazionale come quella di una «biondona, in pelliccia di petit-gris, che per snellirsi il corpo si era fatta un abito stretto stretto, felino, e per smagrirsi la faccia si mangiava, dall’interno, le guance, fino a simulare le buche di Marlene, assolutamente pareva una vampira invecchiata, le si immaginava un tempestoso passato di malacquistate ricchezze, di cui soltanto restava la pelliccia petit-gris, pompa del 1925» o ritratti come questo di una giovane magrolina «con il cappello tondo e il sorrisetto ironico che sono ormai l’aspetto tradizionale del frutto acerbo», dai quali può agevolmente comprendersi qual genere d’occhio possedesse la Brin: occhio agile, analitico, presto a chiudersi sui dettagli con lo scatto secco di una polaroid. Per la sottigliezza e il brio Sciascia riconobbe in queste pagine qualcosa di vagamente settecentesco e, certamente, lo spirito distaccato e notomistico di molti articoli della Brin può far pensare a una pariniana Notte fra i café-chantant o a un Giorno dardeggiante sopra il cicaleccio disinvolto di una stazione balneare.
Modernissima era l’attitudine della Brin a scomporre le scene che osservava nei dettagli più insignificanti e minuti – quella tal fragranza, quel gesto appreso nei giornali illustrati, quella maniera di portare il cappello, quel particolare modo di ossequiarsi o di poggiare i guanti, i luoghi triti, i segni di distinzione dello snob, l’accento ricercato nel dire quella tal frase –, i quali poi, ricomposti nella misura agile di un elzeviro, davano quei suoi quadri così effervescenti e vivaci del costume italiano dell’epoca: Tè al Camilloni, Modelli di carta, La Casina Valadier e via dicendo.
Maria Vittoria Alfonsi, in una delle testimonianze del volume, la ricorda così: «bella, alta, sottile, i grandi occhi azzurri con lunghe ciglia, un incedere regale ma quasi sospeso da terra (…) Non appena aveva raggiunto il suo posto, estratto il taccuino, la sfilata cominciava». La Brin sfiorava ogni cosa e annotava; l’occhio e l’orecchio registravano ciascuna vibrazione con la cedevolezza nervosa di una sensibilissima antenna.
Nell’Italia fascista, in cui dominante era l’aspirazione a un rinnovato classicismo, la Brin cercava, al contrario, la bellezza moderna. Per lei, come per Baudelaire, essa risiedeva nell’effimero, in quegli elementi irrequieti e gassosi attraverso i quali soltanto può inverarsi nel tempo presente l’eternità dell’ideale estetico. «Com’è avvenuto – si domanda Michela De Giorgio nel libro – il miracolo di una narrazione agli antipodi dagli elogi alla prestanza delle forme, alla purezza del profilo, alla nobiltà del sangue inconfondibili e tutti italiani che Bellezza non aveva smesso di propagandare? Poiché crede fermamente che la bellezza femminile sia indicibile, Brin la rappresenta in modo elusivo, fuggevole, apparizione dai mobili, mutevoli, mimetici connotati».

Quando nel 1946 fondò, col marito Gaspare del Corso, la Galleria L’Obelisco in via Sistina le sue opinioni non erano affatto mutate: l’arte serbava per lei il carattere di certe fragranze dette di testa, eccitanti e volatili. Così i due coniugi, rifiutando la pietrosa intransigenza di qualsivoglia giansenismo estetico, si posero in ascolto. «Bella, alta, sottile», le narici sensitive dilatate, nella savana dell’arte contemporanea la Brin doveva apparire simile a qualcuna di quelle belve acquattate dello scultore Sirio Tofanari.
Per Enrico Crispolti, un’altra delle testimonianze raccolte nel volume, L’Obelisco fu una «galleria culturalmente antologica anziché di tendenza». E ancora: «Ripensando ora alla caratterizzazione del percorso propositivo storico, fra fine anni Quaranta e tutti i Cinquanta e inizio Sessanta, non v’è dubbio che questo risulti sostanzialmente alla distanza quella di un orientamento proficuamente di confronto, sia transgenerazionale altrettanto che attraverso correnti e posizioni diverse».
Il libro dedica alcuni capitoli agli artisti che vi esposero (Afro, Caruso, Burri, Rauschenberg, Balla) ma, a volerne redigere l’indice completo, servirebbe una mezza pagina: vi furono proposte legate all’area informale (Matta, Burri, Bacon, Gorky), alla nuova figurazione italiana (Tornabuoni, Cremonini, Gnoli, Ruggero Savinio), all’«arte programmata» e ai cosiddetti «cinetici» (Malina, Munari, Marchegiani) e, ancora, riproposte di autori del passato, come Balla, presentati in qualità di precursori delle tendenze attuali.
Nel gennaio 1945, poi, i coniugi allestirono una mostra Opere recenti di Leonor Fini, A. Beloborodov, F. Clerici, S. Lepri, A. Savinio, T. Zancario e Antiche Fantasie della Collezione Fiorini che ebbe il merito di raggruppare un novero di eccellenti pittori nelle cui opere il Sogno giungeva come riflesso nell’immobile specchio dell’arte antica, fosse essa quella di Zumbo, del Bramante, di Zurbarán, dei maestri gotici o dei vedutisti veneti; sicché le architetture di Clerici o di Beloborodov paiono giungerci da indistinte lontananze marine come i rintocchi delle campane di Savannah-la-mar, la città sprofondata di una famosa pagina di Thomas de Quincey.
Ma la febbrile attività de L’Obelisco non rifletteva tanto un calcolo mercantile quanto l’ideale estetico di un’arte che partecipasse del moto incessante del gusto, del veloce scambio delle idee, della Moda che Parini chiamava «vezzosissima dea”» perché lesta «a cangiarsi e a risorgere». Sulla cima dell’Obelisco, «la più internazionale delle gallerie romane», c’era come un segnavento. Negli ultimi anni però i coniugi si fissarono esclusivamente su particolari tendenze artistiche. Per Crispolti questo irrigidimento fu un anticipo di rigor mortis. La galleria perse smalto. La banderuola si era infine arrugginita.