«Saddam se n’è andato e ora ce ne sono mille, di Saddam, che si nascondono dentro la Zona Verde», dice un giovane manifestante all’Afp, in mezzo a piazza Tahrir. «Vogliamo vivere. Non è questione di soldi, ma di vivere. Lasciateci vivere», le parole della 21enne Batoul ad al Jazeera. Sono le voci della piazza irachena. Richieste precise e senza partito, dal 9 ottobre a oggi: un nuovo governo, una nuova costituzione non settaria, lavoro, redistribuzione della ricchezza.

LA POLITICA NON SA RISPONDERE: ieri il parlamento avrebbe dovuto riunirsi d’urgenza per discutere un primo pacchetto di riforme economiche, su richiesta degli stessi parlamentari dopo le violenze di venerdì. Sessione fallita e rimandata a data da destinarsi: non è stato raggiunto il quorum.

Intanto, fuori, per le strade di Baghdad e delle città del sud sciita si continuava a protestare. Nella notte tra venerdì e sabato il numero dei manifestanti uccisi è salito: oltre 60 vittime accertate, oltre 2.300 i feriti. Due i morti ieri. Nella capitale, piazza Tahrir è rimasta l’epicentro della ribellione: in centinaia sono rimasti a dormire nelle tende per presidiarla, ieri mattina l’hanno ripulita, qualcuno ha letto il Corano per commemorare le vittime. Siamo armati solo di bandiere e di acqua contro i gas dei lacrimogeni, dicono accusando le forze di sicurezza di una violenza irragionevole.

LA POLIZIA HA TENTATO di nuovo di disperdere la folla con i gas lacrimogeni, letali quanto le pallottole se è vero – dicono le organizzazioni per i diritti umani – che almeno otto persone sono state uccise dai candelotti. Numerosi però anche gli uccisi da armi da fuoco.

Il ministero degli Interni ha negato ieri l’uso di pistole e fucili da parte della polizia, scaricando la colpa sulle milizie sciite che a sud sono intervenute in forze contro le proteste. Ieri le manifestazioni sono proseguite anche a sud, nonostante il coprifuoco imposto venerdì dal governo su otto province, quelle dove le proteste si sono fatte più violente con assalti alle sedi dei partiti e delle milizie sciite. Undici delle 42 vittime sono morte nell’incendio di un edificio, appiccato dai manifestanti stessi.

È in questo contesto che ieri l’ufficio congiunto delle forze di sicurezza irachene, con un comunicato, ha fatto sapere ai manifestanti che saranno trattati dalla polizia come «terroristi» nel caso di nuovi attacchi a edifici governativi o sedi di partito, per poi citare un presunto e non dimostrato assalto a una prigione non identificata per liberarne i detenuti.

SULLO SFONDO DEL PALCOSCENICO della mobilitazione popolare si muovono altri attori. L’Iran resta il convitato di pietra, preso di mira dai manifestanti attraverso i suoi proxy locali, le milizie armate sciite impiegate contro l’Isis e che nel frattempo si sono fatte partito. C’è poi Moqtada al-Sadr, potente religioso sciita rivale di Teheran, che da anni cavalca il malcontento delle classi medie e basse; così è riuscito a vincere nel maggio del 2018 le elezioni parlamentari insieme allo stravagante compagno di lista, il Partito comunista. Oggi al-Sadr dà il suo appoggio alla piazza evitando di dire che al governo c’è anche lui.

E INFINE C’È IL DEBOLE primo ministro, Adel Abdul Mahdi, in carica da poco più di un anno e dopo innumerevoli consultazioni, tuttora incapace di mettere in campo una reale riforma politica ed economica.

A frenare il cambiamento, da decenni, è il sistema di potere settario cristallizzato nel post-Saddam: partiti politici che sono riferimento di etnie e confessioni e che di quelle identità fanno gli interessi, distribuendo favori, lavori pubblici, prebende in cambio di voti.

Un sistema che si è sempre auto-rigenerato ma che oggi è apertamente sfidato da chi – i giovani – non ne può più di uno Stato disfunzionale e clientelare.