La tragedia irachena potrebbe avere come risultato la più imprevedibile delle alleanze: Teheran-Washington. Impensabile, vista la guerra fredda che ha caratterizzato i rapporti tra Iran e Stati uniti dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista. Impensabile ma oggi più probabile. Ieri il presidente iraniano, Hassan Rowhani, si è detto pronto a intervenire in sostegno di Baghdad contro l’avanzata jihadista. E se questo si dovesse tradurre nella discesa in campo accanto agli Usa, il nemico di sempre, la Repubblica islamica se ne farebbe una ragione.

Il post-Ahmadinejad sta trasformando il volto dell’Iran, ma è ovvio che gli interessi in gioco sono ben altri: sul piatto iracheno non c’è l’apertura o meno verso l’Occidente, quanto piuttosto la necessità di bilanciare l’offensiva sunnita in Medio oriente e il grande burattinaio del Golfo, l’Arabia saudita. Non è un mistero il ruolo che i sauditi – e, con loro, le altre petromonarchie sunnite – giocano contro i nemici storici, il regime di Assad in Siria e quello iraniano, e a pagarne le spese è oggi l’Iraq. Il premier Maliki non è mai stato ben visto da Riyadh e Doha e l’occasione di un’avanzata qaedista di simili dimensioni fa il gioco dei monarchi sunniti.

Difficile che Teheran restasse a guardare. Ieri, il presidente Rowhani ha annunciato un aiuto che, quando Baghdad lo domanderà ufficialmente, avverrà «nell’ambito del diritto internazionale», smentendo quanti volevano le guardie rivoluzionarie già attive nella provincia irachena di Diyala. Al Ministero degli Esteri, però, indiscrezioni insistono: il generale Suleimani, capo delle unità speciali dei pasdaran, è stato mandato giorni fa a Baghdad per coordinare l’assistenza militare, alla guida di due compagnie (notizia riportata da numerose testate europee che parlano di 2mila membri delle guardie rivoluzionarie già in territorio iracheno).

Più morbida per ora la risposta statunitense: il presidente Obama ha promesso un intervento immediato e fatto riferimento a raid aerei con i droni, stile Yemen, ma nessuna truppa metterà piede sul suolo iracheno dopo il ritiro di due anni e mezzo fa. La confusione regna nelle stanze dei bottoni Usa: l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003 hanno frammentato il paese in etnie e sette, sradicato l’identità nazionale su cui Saddam cementava le diverse anime irachene e imposto una classe dirigente sciita corrotta e disfunzionale. Otto anni durante i quali le milizie sunnite vicine ad al Qaeda hanno creato una rete comunicativa e strategie militari senza precedenti, facilitati dall’alleanza tra Washington e i paesi del Golfo che hanno potuto, indisturbati, far moltiplicare tali milizie.

Sul campo, la situazione resta complessa e c’è chi comincia a parlare di vera e propria guerra civile dopo le migliaia di civili sciiti che si sono arruolati a fianco del governo di Baghdad, in risposta all’appello del premier e alla fatwa dell’Ayatollah al-Sistani. Il conflitto è radicato, ma a scontrarsi sono per lo più iracheni sciiti da una parte e sunniti stranieri dall’altra. Se è vero che sono tanti i sunniti iracheni che si sono uniti alle forze dell’Isil, guidate da Al-Baghdadi, del gruppo fanno parte anche miliziani provenienti da fuori, mentre gran parte della popolazione sunnita in queste ore è più impegnata a lasciare le proprie case per avere salva la vita che a imbracciare le armi contro il regime di Maliki. Si calcola che, a quasi una settimana dall’inizio dell’operazione qaedista, siano un milione le persone in fuga verso nord, verso il Kurdistan.

Ieri il governo ha lanciato la controffensiva contro i miliziani islamisti dell’Isil, padroni di un terzo del paese. Il campo di battaglia è Samarra, città sciita alle porte di Baghdad, vero target dei qaedisti: «Samarra non è l’ultima linea di difesa – ha detto il premier – ma la rampa di lancio» verso la vittoria finale. Nella giornata di ieri, il governo ha messo a segno alcuni risultati: riconquistata la zona di Mutassim, a nord della capitale, e la città di Ishaqi nella provincia di Salah-a-din, dove le truppe regolari hanno trovato i corpi bruciati di 12 poliziotti. Oltre alle defezioni di centinaia di soldati, sono tanti quelli uccisi dagli islamisti: secondo le Nazioni unite, l’Isil avrebbe giustiziato più di 1.500 militari.

Proseguono anche i bombardamenti aerei nelle aree dove la presenza dell’Isil è più radicata, a nord e ovest del paese. In uno dei raid contro Tikrit è stato ucciso Ahmed al-Douri, figlio di quel Izzat Ibrahim al-Douri vice presidente iracheno durante il regime di Saddam e una delle “carte” del famoso mazzo usato dagli Usa per elencare i ricercati dell’allora governo di Baghdad. Ahmed Al-Douri, al momento della morte, si trovava con altri 50 miliziani dell’Isil, ulteriore prova che molti fedelissimi del rais e numerosi ex generali baathisti si stanno unendo alle file degli islamisti.