Battaglia delle donne per la vita e per la libertà in Iran, Afghanistan e Stati Uniti è il sottotitolo, e il focus principale, del libro di Liliana Faccioli Pintozzi, Figlie di Eva (Paesi edizioni, pp. 160, euro 16). Caporedattrice esteri di Skynews24, dopo essere stata inviata a Bruxelles, New York e Londra, l’autrice affida al suo ultimo lavoro l’esito di incontri e analisi di uno scenario contemporaneo che si muove tra proteste e discriminazione basata sul genere sessuale.

I tre capitoli, dedicati a Iran, Afghanistan e Usa, si identificano con i verbi «scegliere», «esistere» e «resistere». In prefazione vi è una frase di Martin Luther King «se non si liberano tutti, non si libererà nessuno». Sono questi elementi ad aver determinato la genesi del volume?
Nella frase di Martin Luther King ci sono le fondamenta per arrivare a ciò che ha detto l’avvocata e attivista iraniana Shirin Ebadi, che dove non sono difesi i diritti delle donne non ci può essere democrazia perché la democrazia passa attraverso i diritti delle donne. Sembra banale ma non lo è, in alcune parti del mondo non lo è in maniera evidente, ma non lo è neanche nell’Occidente che si sente molto avanzato. Ho scelto i tre verbi che fotografano meglio la situazione nei tre paesi di cui parlo. Il diritto di scegliere chiesto dalle donne iraniane, che non è una lotta contro il velo: il velo è la rappresentazione di una situazione giuridica per cui le donne in Iran valgono meno proprio giuridicamente.

Ad esempio in tribunale la loro testimonianza conta meno. In Afghanistan è il diritto di esistere: le donne sono considerate alla stregua di un asset, e valgono, a seconda di quanti figli possono dare, o poco più di quello. E poi il dovere di resistere negli Usa che sono comunque il paese di riferimento per l’Occidente inteso come comunità geopolitica. Ed è dove abbiamo visto come sono svaniti in pochissimo tempo dei diritti che si davano per acquisiti, e di come basti poco per tornare indietro. Si tratta proprio della visione e del ruolo della donna in una società. La donna che non ha il diritto di scegliere e che per aver accesso all’aborto deve passare attraverso pratiche che sono discriminatorie e disgustose, come se non avesse un cervello, ma avesse bisogno di uno Stato, ovviamente in mano agli uomini. C’è anche un’altra citazione all’inizio di questo, libro: «siamo le nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare».
Perché quello che sta avvenendo nel mondo, e il motivo per cui ho scritto, è che al netto della guerra in Ucraina e tra Hamas e Israele, negli ultimi 18 mesi sembrava che tutti i grandi movimenti geopolitici mondiali avessero questo filo rosso: proteste che si sono trasformate a volte in rivoluzioni, a volte in resistenza, e che sono partiti dai diritti delle donne, come se fosse arrivato un momento di risveglio globale.

Che importanza hanno gli uomini in questi movimenti di donne?
Quando gli uomini scendono in campo è il momento in cui la lotta delle donne non è più vista come una lotta femminile, ma come una lotta necessaria per la democrazia di un paese, e quindi per gli uomini che fanno parte di quel paese, e che vogliono la democrazia. L’attivista e giornalista Masih Alinejad in particolare mi ha detto che lei per decenni si è vergognata degli uomini iraniani perché non tollerava il fatto che potessero essere felici e contenti mentre le donne subivano quello che dovevano subire. Gli uomini si stanno mobilitando perché capiscono che è il momento di un cambiamento: che sia contro l’Islam politico come in Iran, o che sia contro una visione patriarcale della società come in alcuni stati degli Usa.

Il riferimento è a ulteriori episodi ma altrettanto precisi?
Negli Usa, la Women’s March contro Trump, che pure è stata simbolicamente fondamentale, era comunque una mobilitazione di democratiche e democratici. In Usa il momento di svolta sono state le elezioni di midterm del 2018, quando anche i repubblicani e le repubblicane hanno votato per i dem o non hanno votato. Perché hanno detto no, questo è troppo, e quello per il diritto di aborto diventa un movimento trasversale. Lo dimostra il Paese che è il Ground zero di tutto ciò, l’Afghanistan, dove gli uomini sono ancora lontani

Come mai nel suo libro manca l’Italia?
L’idea del libro è nata mentre c’erano le proteste per la morte di Mahsa Amini in Iran, c’erano appena state le elezioni in Usa e i talebani erano tornati al potere in Afghanistan, tre situazioni enormi. Mi sono soffermata in luoghi dove la discriminazione è giuridica, non culturale, o non solo culturale. Posti dove le donne per legge non sono cittadini normali, anche se sono sicura che per negli Usa questa affermazione possa far uscire il fumo dalle orecchie, ma la realtà dei fatti è che in Usa quando vai a parlare della salute delle donne, loro non hanno gli stessi diritti di quanti ne abbiano gli uomini. È chiaro che negli Usa le donne hanno una condizione giuridica ben diversa da quella delle iraniane e entrambe l’hanno ben diversa da quella delle afghane. In Italia abbiamo una voragine, sociologica e culturale. Ci mancano gli strumenti migliori per combattere i femminicidi, ma non c’è scritto da nessuna parte che per legge una donna possa essere uccisa. E credo che sia questo il motivo per cui non ho scritto un capitolo italiano vero e proprio.