Il 28 aprile 1131 «Cacciaguida filius Adami» comparve come testimone a un contratto d’affitto di un pezzo di terra presso la porta della Badia Fiorentina: il trisavolo di Dante è dunque esistito davvero; non sappiamo se sia mai stato addobbato – cioè se abbia mai ricevuto l’investitura a cavaliere da Corrado III – né se abbia effettivamente seguito l’imperatore nella crociata contro gl’infedeli e subito il martirio in Terrasanta, come racconta Dante nel canto XV del Paradiso. Quel che è certo è che tempi e luoghi filano perfettamente: Corrado fu in Italia, e in Toscana, nel 1128; bandì la crociata tra il ’46 e il ’48, morì nel 1152. Cacciaguida nel 1189 era già morto, come attesta un secondo documento che vede protagonisti i di lui figli Preitenitto e Alighiero: si tratta di una controversia sul taglio di un fico presso la Chiesa di S. Martino del Vescovo, in prossimità di quelle che furono le case di Dante e in prossimità della porta della Badia. Il documento del 1131 apre, significativamente, la nuova, monumentale edizione del Codice diplomatico dantesco di cui costituisce una delle non rare perle (Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, VII/iii, a cura di Teresa De Robertis, Laura Regnicoli, Giuliano Milani e Stefano Zamponi, Salerno editrice, pp. C-808, con 16 tavole a colori f.t., € 59,00).

L’ipotesi di un Codice diplomatico dantesco (CDD) – cioè la raccolta e l’edizione di documenti pubblici o privati «ovunque conservati e relativi a una realtà territoriale più o meno estesa, a un ente di solito ecclesiastico, a una dinastia» – venne avanzata già nella prima metà dell’Ottocento da Cesare Balbo ma cominciò a prendere corpo solo dopo l’anniversario del 1865. A una serie di documenti esibiti da Pietro Fraticelli nella sua biografia del poeta e da Vittorio Imbriani in una lunga teoria di contributi danteschi, fece seguito un progetto più organico a opera di Giuseppe Lando Passerini e Guido Biagi, concretizzatosi nella pubblicazione, nel maggio 1895, di quella che doveva essere la prima delle venti dispense del CDD. Accolta calorosamente dal Carducci, quella prima uscita sollevò invece le fondate riserve di Michele Barbi: troppe riproduzioni, non tutte necessarie, assenza di un disegno organico, scarsa consapevolezza dei problemi in campo. Il progetto si chiuse nel 1911 con la pubblicazione della quattordicesima dispensa, ma non venne abbandonato. Fu proprio Barbi a rilanciarlo grazie all’aiuto del valente Renato Piattoli: si mantenne la vecchia titolazione ma fu ampliato il campo di indagine a includere anche le pergamene del ramo veronese della famiglia, e segnatamente quelle relative al figlio di Dante, il giudice Pietro. La prima edizione uscì nel 1940; includeva 230 documenti, con un supplemento di altri 30 pezzi distribuiti su due appendici. Dieci anni dopo fu data alle stampe la seconda edizione, arricchita da alcune novità rilevanti fra le quali spicca un documento dell’aprile 1240 che vede tra i testimoni Bellincione Alighieri, nonno di Dante. Una terza edizione era destinata ad abbracciare i nipoti fiorentini e veronesi del poeta, ma non vide mail la luce.

Tra i recuperi eccellenti del nuovo CDD, esclusi da Piattoli perché a suo avviso non offrivano tutte le certezze di effettiva pertinenza alla famiglia Alighieri, figura, oltre al già citato documento di Cacciaguida (doc. 1), anche un verbale di votazione del Consiglio generale del Comune di Firenze datato 6 luglio 1295 (doc. 74), nel quale, in effetti, il nome «Alighieri» risulta parzialmente abraso ma su cui non pare lecito nutrire troppi dubbi. È un passaggio importante perché segna una mitigazione degli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella del 1293 a favore del Popolo grasso, e perché Dante avrebbe non solo partecipato ma anche preso la parola a sostegno della proposta. A esso si possono accodare – esclusioni altrettanto clamorose – la lista dei membri del Consiglio speciale del Capitano di Firenze, tra cui figura Dante (doc. 79), o l’elenco dei priori di Firenze del bimestre giugno-agosto 1300, momento cruciale per la ricostruzione della biografia del poeta (doc. 117). Apparentemente secondario, e invece di grande interesse, è anche un documento – schedato e trascritto tra le carte di Piattoli, ma mai pubblicato – che il 20 maggio 1314, a Pagnolle, vede testimoniare a una riunione di capifamiglia «Iohannes filius Dantis Alagherii» (doc. 168). Potrebbe trattarsi del medesimo Giovanni di Dante presente a Lucca, come testimone a un atto di cambio, nell’ottobre del 1308, e in tal caso il documento conferirebbe maggior spessore a questo figlio, illegittimo secondo alcuni, del poeta. Le novità si estendono anche all’impianto generale del volume, in un disegno di ricostruzione ampio ed esaustivo che porta a compimento gli auspici di Piattoli: al corpus principale dei documenti si aggiungono ora 4 appendici riservate, oltre che a Pietro Alighieri (I), ai nipoti fiorentini (II) e ai nipoti veronesi (III), nonché alla serie di Documenti di dubbia pertinenza (IV). Nel robusto blocco di testimonianze relative al figlio Pietro e alla sua lunga discendenza veronese si ritrova, felicemente, il regesto del documento con cui Pietro, il 24 ottobre 1353, acquistava a Gargagnago di Valpolicella, il pezzo di terra su cui ancora oggi sorge Villa Serego-Alighieri, la dimora dei discendenti.

Come è intuibile, la documentazione qui raccolta apre squarci di grande interesse anche in relazione alla biografia di Dante, in questi ultimi anni fatta oggetto di ripetute e incisive rivisitazioni. Quasi a corredo del nuovo CDD, allora, si offrono i due sostanziosi volumi esito del convegno svoltosi a Roma in occasione dei 750 anni dalla nascita del poeta (Dante fra il settecentocinquantenario della nascita (2015) e il settecentenario della morte (2021), a cura di Enrico Malato e Andrea Mazzucchi, Salerno editrice, pp. 880, con 72 tavole f.t., € 78,00): tra le proposte più suggestive emerse dalla rilettura dei documenti e accolte negli atti, v’è quella di riconsiderare la famiglia di Dante non più come esito di una nobiltà decaduta dalla antica militia, bensì come consorteria che toccò l’apice del proprio prestigio proprio all’epoca di Dante, consentendogli, grazie agli investimenti compiuti col prestito di denaro a interesse, di militare a cavallo e di vivere di rendita. Alla biografia reale se ne affianca una di tipo ideale, tesa a ricostruire il processo di formazione intellettuale del poeta, gli ambienti culturali che poté frequentare, la biblioteca e o le biblioteche cui ebbe accesso: i conventi di Firenze, lo studio di Bologna, la biblioteca Capitolare di Verona; e gli autori – sacri e profani, latini e volgari – che lesse e su cui si formò. Il dibattito, ancora caldo, suscitato un paio d’anni fa dall’importante e discusso volume di Luciano Gargan sulla biblioteca di Dante, testimonia del fatto che molti nodi rimangono da sciogliere: ad esempio, la lista di auctores, tra cui «Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios quos amica sollicitudo nos visitare invitat» che Dante affida al De vulgari eloquentia (II, 6, 7) e che qualcuno vuole assegnare a una precoce frequentazione (1303-1304) della biblioteca Capitolare di Verona, mentre il venerando Billanovich la liquidava come «lista sghemba di prosatori illustri». Le celebrazioni dei centenari (2015-2021) offriranno occasioni preziose per nuove ricerche, nuovi scavi, nuove ipotesi: come amava ancora dire Billanovich, «c’è lavoro per figli e nipoti».