«Non dovete preoccuparvi, il tempo sta solo giocando con me», afferma Vera, protagonista, fin dal titolo, Io sono Vera, del nuovo film di Beniamino Catena (nelle sale da giovedì scorso). Un’opera anomala all’interno del cinema italiano che conferma il percorso altrettanto anomalo e denso di suggestioni del cineasta nato ad Ancona nel 1968 che, dagli anni Novanta, ha costruito una filmografia composta di corto e mediometraggi (ancora oggi indimenticabile è Marcia funebre di una marionetta del 1994), videoclip, documentari, spot, serie televisive.
Io sono Vera, che per definizione del suo autore «ha molte anime e molti volti», è un viaggio spazio-temporale, tra la Liguria e il deserto di Atacama in Cile, che rimette in discussione l’idea e la prassi di un «tempo» unico e incastonato nelle convenzioni, che compie capovolte rischiose librandosi nell’aria, nella terra, nell’acqua per descrivere quella che, anche qui rimanendo inchiodati alle convenzioni, realisticamente appare come una serie di «incontri impossibili».
Da una parte, sul promontorio ligure di Punta Crena, c’è una bambina, Vera, che di lì a poco sparisce senza che di lei si sappia più nulla. Da un’altra parte, nel villaggio cileno di San Pedro de Atacama, un uomo, l’operaio Elias, torna a respirare dopo essere stato dichiarato clinicamente morto e «sente» che deve partire, «chiamato» da Vera. Che si ri-presenta, ma con il corpo di una giovane donna, nuda su una spiaggia, come scaraventata da un altro pianeta, e raggiunge la casa dei genitori dicendo di essere la loro figlia.

SI INANELLANO così smarrimenti su smarrimenti, mentre il film, sequenza dopo sequenza, s’incammina in quella che è la sua essenza più profonda: mettere in scena stati della mente e del corpo che si spostano da un continente a un altro, attratti da una «visione», da una frase («dove c’è il fuoco»), dentro la vita e la morte. Ma Catena, con scelta potente e coerenza teorica, nega il tempo del viaggio, gli andirivieni tra Italia e Cile, ci si trova come teletrasportati da un luogo a un altro.
Io sono Vera è abitato da continui slittamenti che producono flussi sensitivi e sensoriali, una massa di collisioni, esplosioni, implosioni che abbagliano e generano traiettorie inattese, esoteriche più che misteriose, alle quali credere proprio perché si esprimono attraverso una iniziale incredulità, che è anche quella dei genitori di Vera adulta che devono abituarsi (la madre lo fa subito, il padre successivamente) alla presenza di quella creatura «aliena» con la morte che la risucchia, con il tempo che ha giocato e gioca con lei – così come con tutti gli altri personaggi della storia.

LE FRATTURE temporali che si succedono infine si ricompongono, sotto il cielo cileno e la moltitudine di percorsi suggeriti da galassie non solo da osservare ma verso le quali tendere desideranti in cerca di nuovi «contatti».
A dare corpo a Vera, e alle sue mutazioni fisiche, c’è Marta Gastini (tra le sue interpretazioni, quella di Mina Harker in Dracula 3D di Dario Argento) che fa vibrare per tensione e una recitazione a fior di nervi un personaggio nato dalla scrittura prima di Beniamino Catena e Graziano Misuraca (autori del soggetto) e poi di Nicoletta Polledro e Paola Mammini (che firmano la sceneggiatura). In un film dove, a segnare linee sotterranee e al tempo stesso visibili con una filmografia ampiamente contaminata con la musica, la colonna sonora è stata affidata ai Marlene Kuntz (per e insieme a i quali Catena aveva già lavorato nella durata breve del videoclip) al fine di creare ulteriori interferenze. Io sono Vera comunica un’idea di cinema libera e ibrida, anche imperfetta, fuori da codici pre-ordinati, che osa l’inciampo e che, nelle parole di Catena, «si confronta con l’ignoto desiderando scoprire cosa c’è oltre la barriera del visibile e del corporeo».